Dik
Arrivò da noi in una scatola da scarpe.
Quando ne uscì, corse subito da me. Stava appena sulle zampe, tanto era piccolo e gracile.
Tra me e lui fu amore a prima vista; a primo fiuto, nel suo caso.
Due giorni dopo era già la mia ombra, con grande rabbia di mio fratello che se l’era preso per farne il suo compagno di caccia, come conviene ad un pointer, nobile cane da ferma e da riporto, anche dall’acqua.
Siamo cresciuti insieme. Inseparabili. Ci si capiva al volo, in ogni circostanza. Divenne anche il mio cane da difesa; guai a chi avesse provato ad alzare la voce con tono di minaccia.
Dividevo anche il cibo con lui: mangiavo molto poco, allora, e quello che non mi piaceva me lo sfilavo di bocca per passarglielo di nascosto sotto il tavolo.
In un attimo il boccone era già nello stomaco di Dik.
Il suo compito preferito era svegliarmi al mattino. La mamma gli apriva la porta della mia stanza e lui veniva veniva al buio fino al mio letto e coscienziosamente provvedeva a lavarmi il viso, e le orecchie. Con metodo, e con amore.
Insieme abbiamo giocato fino allo sfinimento, pianto per i dispiaceri di cui patiscono i bambini, corso a perdifiato e combinato cento marachelle.
Se ne è andato senza un saluto.
Sono tornato da scuola e non c’era più.
Nessuno ha saputo dirmi dove fosse andato quella mattina.
Ma dentro a me si era già spezzato qualcosa, ed ho pianto. Per giorni e giorni, ogni volta che allungavo la mano per una carezza, riprovavo lo stesso dolore, e la solitudine.
Franco
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