Pasquetta
Ufficialmente la primavera arrivava a pasquetta. Lo aveva deciso la mamma.
Il giorno dopo Pasqua, se non pioveva, la mia famiglia con quella dei miei cugini più stretti, saliva in campagna, a casa dei nonni.
Lì si faceva colazione sull’erba nuova al primo tiepido sole dopo l’inverno.
La mamma e la zia amavano mangiare al solito posto, una piccola radura in un bosco stentato di carpinella circondato da pietre aguzze, cariate da millenni di pioggia e spaccate dal sole e dal gelo. Ci si poteva stendere un paio di plaid su cui sedere e sistemare il cibo portato dalla città: un bendidio, che sarebbe bastato a sfamare un reggimento. C’erano anche le uova sode, colorate col pennello dalle mie sorelle: un giorno di lavoro che spariva in un attimo per saziare la fame di tutti.
Da quella radura si vedeva la pianura, fino a Venezia. Uno spettacolo che riempiva gli occhi e il cuore.
A me e ai miei cugini, interessavano però di più le pietre, specie quelle alte come spalti d’un castello in bilico sul vuoto della valle. Ci si arrampicava e si correva saltando dall’una all’altra, incuranti dei graffi e dell’aria ancora pungente.
Alle mie sorelle interessavano, invece, i narcisi, che raccoglievano a mazzi per portare la primavera anche in città.
Alle mamme e ai papà andavano bene l’aria pulita, il sole e il senso di liberazione che veniva dal vederci giocare, scatenati e sicuri in mezzo al nulla.
Franco
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