Feltro
Arrivai alla Casa con uno splendido paio di pantofole lavorate all’uncinetto con lana grossa, calde, traspiranti. E sotto, una spessa suola di feltro.
Comode. L’ideale per stare seduti a lungo a studiare.
La Casa dello Studente non era ben riscaldata, e quelle pantofole mi andavano da dio.
E poi … erano un dono di Micaela, la mamma della mia morosa.
Un’attenzione che mi donava il senso della famiglia, degli affetti lontani.
Alla Casa occupavo la stanza 31. Primo piano. Luminosa, posta a metà del corridoio. Qualche inconveniente c’era, ma a vent’anni le gambe son buone e per bere un caffè, raggiungere la doccia o rispondere al telefono nella cabina all’ingresso, non mi disturbava scendere in fretta il largo scalone, curvo ed elegante, tra terra e primo piano.
Di sicuro il custode mai sarebbe salito ad avvisare gli studenti che qualcuno li cercava al telefono. Soprattutto nel caso delle interurbane, che col passare dei secondi diventavano sempre più care, era meglio un grido, tipo: Franco!!!! Telefono, da Trento!!!!
La voce dell’ex Carabiniere si sentiva anche dalla stanza numero 39, quella posta in fondo al corridoio.
Sentii proprio quel richiamo. Balzai in piedi, avvertendo il tic tac dell’orologio virtuale che scandiva la telefonata, e mi precipitai a rispondere. Aprii di corsa la porta della mia stanza, feci perno con la mano sullo stipite per un’accelerata più vigorosa, scivolai con le suole di feltro sulla cera appena stesa sul pavimento, caddi sulla natica, spalancai con un tackle davvero strepitoso la porta della stanza di fronte e in un attimo ero già infilato, con somma eleganza, sotto la sedia del mio dirimpettaio.
Stavo gridando: Arrivoooo! Il mio compagno non capì.
Nessuno t’aspettava! - esordì - la prossima volta, per favore, vedi di bussare!
Franco
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