Cardo


Quando si pranza, qua in montagna, spesso gli occhi mi corrono ad una litografia appesa di fronte al tavolo. Non ricordo come sia arrivata quassù. Anche se l’artista è noto, per me il valore del disegno è connesso solo alla pianta che rappresenta: un cardo, con forme un po’ approssimate che a me rammentano l’eringio d’ametista, come lo chiamava mia sorella, e accendono ricordi che mi portano indietro nel tempo, sommergendomi di nostalgia.

La memoria corre infatti alle mie sorelle, e ad alcuni meriggi d’estate durante i quali, per tenermi lontano da casa dove la mamma e il papà riposavano, mi portavano tra i prati del monte intorno alla casa dei nonni. Loro leggevano, sedute sull’erba, io inventavo i giochi più strani. Inseguivo le decine di piccole farfalle azzurrine che mi volavano intorno, cercavo d’acchiappare le altrettanto numerose cavallette verdi che saltavano di qua e di là ovunque intorno a noi, cercavo di individuare i grossi grilli neri o le cicale che frinivano chissà dove, i primi tra le zolle della terra crepata dal secco, le altre sui rami degli alberi che ci davano un po’ d’ombra. 

Quando era ora di tornare verso casa, le mie sorelle s’attardavano a raccogliere gli eringi. Fusti e fiori azzurrini, con riverberi d’argento, come fossero polverosi. Crescevano ai margini sassosi dei sentieri o della carrabile che portava alla corte. Erano pianticelle spinose, e bene armate di aculei robusti. Non avevano profumo, ma s’ornavano del fascino d’una forma inusuale, e di una durata pressoché infinita una volta che fossero stati sistemati con arte in un vaso. 

Ecco il ricordo: un’ora di giochi solitari, la raccolta dei fiori col temperino del papà, e col rischio di dolorose punture, gli occhi felici della mamma, grata per il dono di un mazzo di fiori strani, ma stupendi.

La lito è lì e forse nessun altro la guarda; ma per me è una sorta di madeleine proustiana, una macchina del tempo capace di farmi assaporare attimi lontani di vita da bambino e di teneri affetti famigliari.


Franco


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