Ombra


La baita e la casera di Lucio si trovano a Largé, sul versante ad occidente della Paganella. Il nome fa pensare al larice; argé era il nome della resina che veniva estratta da quegli alberi. Il timbro climatico temperato caldo del luogo non è ideale per la specie, che è più adatta per salire in alto, fino al limite superiore degli alberi. 

Arrivare alla baita significa riempirsi gli occhi d’un paesaggio d’altri tempi, fatto di pascoli e di boschi, del silenzio dei luoghi difficili da conquistare, delle creste, ancora erbose, dei primi contrafforti delle Dolomiti di Brenta che si alzano dall’altra parte della valle. Ci si rende conto d’aver fatto un salto indietro nel tempo! Tutto pare immobile, lì, come se i vecchi che hanno lavorato quei pascoli, e nella casera a farci formaggi, se ne siano appena tornati a casa. Quanti secoli fa? Non lo so. Su una parete della baita si legge 1886, ma forse è la data di una sistemazione degli edifici, e non quella di costruzione. 

E poi c’è il faggio! Immenso, suggestivo.

Il papà di Lucio ebbe a dire che quando lui era bambino, l’albero era alto e grosso come è ora. Si va indietro quasi di un secolo, ma la fantasia ci porta a pensare che baita e casera siano passate da padre in figlio per molte e molte generazioni. 

Ora più nessuno porta vacche ai pascoli di mezzacosta, come un tempo si faceva in primavera e in autunno, regolandosi con la neve e con la disponibilità dell’erba. Quasi nessuno falcia ancora i prati per portare il fieno alle vacche, giù in paese. Per farlo bisognerebbe restituire nutrimento alla terra, portarci letame, e spargerlo con cura. Lo fa chi può usare il trattore per tutte queste operazioni, avendone un tornaconto. Altrimenti si falcia per conservare aperto lo spazio dei vecchi prati, per evitare che il bosco avanzi, ed inghiotta le case, chiudendo la vista, privandole del sole. 

Un tempo, invece, si stava lì a lungo con la famiglia e si dormiva nel fienile. La casera non serve più per fare il formaggio: l’antico focolare ormai racconta d’un passato perduto, che pochi possono ricordare. Sulle pietre sotto al camino si cuociono carni e salsicce ai ferri, e qualcuno può immaginare così di ripetere gesti antichi.

Il faggio sta proprio accanto alla porta della casera, a ridosso della parete rivolta a sud. È talmente grosso che forse due uomini, a braccia aperte e toccandosi le dita delle mani, non riuscirebbero a cingerne il fusto. Si vede che qualcuno, in passato, ha modificato il tetto per far posto all’albero! Segno di rispetto per un vicino prezioso, per un nume tutelare della casa.

Il faggio, infatti, oltre a dare protezione all’edificio, offriva ombra fresca per il riposo della gente; l’ombra diventava ancora più preziosa durante la lavorazione del latte. Si diceva infatti che il fresco sul tetto e sui muri avrebbe tenuto lontane le mosche.

Insomma, quel faggio è cresciuto come un buon vicino, o come un genio che ha accettato, con benevolenza, di convivere con gli umani. 

Sono ancora lì, l’uno accanto all’altro, la casa e il faggio. Un bell’esempio di come si possa stare con la Natura, portandole rispetto. 


Franco


Grazie Lucio


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