Vino
La domenica si mangiava spesso all’osteria da Beneto. Tutte le famiglie della corte insieme.
I piatti erano sempre quelli: tagliatelle fatte in casa al ragù di cortile, e poi braciole e polenta, col contorno dei pomodori dell’orto. L’oste metteva in tavola il vino spillato dalla botte, lo stesso che offriva alla gente che, dopo messa, si fermava a giocare a carte, nell’altra stanza della taverna.
Quando si entrava, la mamma era svelta a superare la stanza lunga e stretta in cui la gente beveva giocando a carte: briscola, scopa o tressette.
Di quella stanza ricordo l’odore acre del vino, le grida, a volte il rumore dei pugni calati sul tavolo, scuro, consumato dai gomiti dei giocatori … che poi erano i contadini delle corti vicine a quella del nonno, che la domenica cercavano un po’ di compagnia sperando di scordare la fatica, e i timori per il raccolto, o per la salute delle vacche.
Alla mamma non piaceva quel giocare a carte all’osteria, ed ancor meno con tutto quel vino.
Io invece vi scorgevo solo la disperazione, e la solitudine di tutta quella gente, che conoscevo per nome, e i cui figli mi erano compagni di gioco. Forse non capivo, ma intuivo che l’osteria serviva ad alleggerire l’anima dalle preoccupazioni, e sentivo la fortuna d’avere un papà che non pativa dei problemi del Bepi, o del Nino, o del Sandro …
Nell’altra stanza noi si mangiava e si rideva di gusto. I grandi avevano il loro bicchiere rosso di vino; noi bambini avevamo la spuma, a volte il chinotto, o l’aranciata. Ed eravamo felici.
Del resto di quel mondo fatto di lavoro, di preoccupazioni e di fatica, a noi arrivavano solo le grida, a volte una bestemmia, e i colpi delle mani dati con forza sul tavolo quando, nell’altra stanza, veniva calata una briscola, o un carico importante.
In quelle domeniche qualche moneta sarebbe passata da una tasca all’altra, portando da una parte un po’ di gioia, e lasciando dall’altra parte un po’ più di pensieri cupi.
Era il prezzo del riposo.
Franco
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