Camosci


Ancora non sapevo che il mio cuore faceva le bizze, e mi ostinavo a salire in montagna fingendo che tutto andasse per il verso giusto.

A volte mi dovevo fermare: il mal di testa vinceva contro la buona volontà. 

Il mio amico Michele quel giorno capì che qualcosa proprio non andava. Mi prese per un braccio, suggerì ai miei colleghi d’andare per conto loro, e mi guidò per quel suo mondo fatato d’Ampezzo dove ben pochi s’avventurano abbandonando i comodi sentieri.

Dovetti sedermi su di una larga ceppaia. Mi restò accanto, in silenzio.

Fu allora che avvenne il prodigio.


Erano decine e decine. Femmine di camoscio, coi piccoli.

Il vento aveva impedito al nostro odore d’arrivare fino a loro.

Le mamme se ne stavano in disparte; pochi metri da noi.

I piccoli, invece, ancora ignari del pericolo portato dagli uomini, ci saltellavano intorno, venivano ad annusarci, ci salivano sugli scarponi, le zampine posate sulle nostre ginocchia, belando felici come fanno i cuccioli di ogni specie di fronte ad un nuovo gioco.

Durò solo un attimo, pochi minuti. Poi tornò il silenzio.

Ma con i camosci se ne andò anche il mio malessere. 

Almeno per quel giorno.


Franco 













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