Chicco
Qualche volta andavo a casa sua per giocare a scacchi.
Sua madre ne era felice. Lui era veramente bravo, ma capitava che vincessi anch’io.
Avevamo sette anni; non potevamo essere esperti di strategia.
Un paio di trucchi li avevamo però imparati; io dal mio papà, lui non so da chi.
Per un poco cercammo di applicare gli schemi conosciuti di apertura e di difesa, ma presto capimmo che non era un buon sistema per giocare, e cominciammo ad improvvisare.
Da quel momento ci divertimmo davvero con gli scacchi.
Essendo compagni di classe, avevamo anche motivo per fare i compiti insieme.
Chicco si interrompeva spesso, e mi proponeva una partita. Riprendevamo i compiti al termine del gioco.
Mi convinsi che per lui libri e scacchiera erano quasi la stessa cosa: un dovere!
Chicco cambiò città alla fine dell’anno scolastico.
Persi il mio compagno di gioco, e per me gli scacchi non ebbero più lo stesso interesse.
Molti anni dopo, forse quaranta, incontrai Chicco alla stazione di Padova. Fu solo un attimo, il tempo per un saluto. Io attendevo l’arrivo di un collega; lui andava a Venezia con lo stesso treno che io stavo aspettando.
Giochi ancora a scacchi? Trovò il modo di chiedermi prima di salire.
No, ormai solo il lavoro, all’Università. E tu?
Si, io gioco spesso, anche in laboratorio. Al CNR.
Gioco e lavoro. Proprio come una volta.
Quaranta anni … e non era cambiato.
Franco
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