Posacenere
Lo studio del papà era grande, ombroso, severo.
Metteva tutti un po’ in soggezione, e nemmeno i miei fratelli vi entravano volentieri.
Io, invece, ci andavo spesso: lì giocavo a caccia al tesoro.
Adoravo la scrivania: arrivavo appena a mettere gli occhi a livello del ripiano, ma già così mi sentivo autorevole come il papà, che era importante; lo dimostrava il tagliacarte, appuntito e tagliente come un pugnale, come la spada da ufficiale appesa alla parete, troppo in alto per me.
Poi c’erano le penne stilografiche, una blu e una rosso sangue. Il segno del potere, come quello del maestro che correggeva i compiti con quegli inchiostri.
Macchina da scrivere: un monumento, pesantissima! Ho provato più volte ad usarla, ma facevo fatica a premere i tasti, con tutte quelle levette e quei rimandi … ci voleva forza, roba da grandi.
Stupenda la calcolatrice: cento tasti, tutti i numeri messi lì in ordine perfetto che neanche il maestro ci sarebbe riuscito. E tre manovelle da girare, facendo sferragliare quella macchina enorme e precisa. Che numeri complicati comparivano sulla finestrella dei risultati! A cosa servivano? Ci voleva proprio la laurea del papà per capirli.
E poi c’era quel posacenere di rame, sul tavolino di servizio.
La mamma lo nascondeva sempre sotto mucchi di carte, ma io lo trovavo in un attimo, e restavo lì a studiarlo, e a passarci sopra le dita.
Affascinante … quanto mi piaceva!
Franco
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