Trani
Fabio mi ha inviato una foto. Da Milano, dove è venuto per lavoro.
Gli piace Milano; con un amico la sta girando per scoprirne l’anima, non quella dei grandi monumenti, o dei musei, ma quella più minuta, più nascosta e forse più affascinante. Così mi ha raccontato di una città piena di verde, nella quale le famiglie vanno a pranzo in trattoria, sedendo all’aperto, e dove si incontrano scorci inattesi, di altri tempi, carichi di storia e di tradizioni. Ecco, la sua foto mi ha mostrato i Navigli, pieni di luce, con i parapetti di ferro e con la gente che prende il fresco seduta fuori dalle osterie, i trani, come si chiamavano una volta. Un’altra foto mi ha emozionato: ritrae una vecchia, vecchissima tettoia di legno, col tetto un po’ sconnesso, in parte di coppi, in parte, forse, di ardesia.
La strada delle lavandaie, mi ha riferito Fabio, per sottolineare il senso antico di quel luogo, che conserva i segni di una attività misera, ma essenziale, fino ad un secolo fa. Si lavavano i panni sui lavatoi, dove c’era l’acqua corrente, quella dei navigli, appunto. Mi è tornato in mente che quando ero bambino, fino alla fine degli anni ’50, anche a Vicenza c’erano donne che scendevano al fiume per lavare i panni. Ricordo una scala in pietra costruita sull’argine alto del Bacchiglione, di fronte al porto romano della città, roba di duemila anni, in vista del muro esterno del Teatro Olimpico, a due passi da uno dei palazzi palladiani più belli, Palazzo Chiericati. Il mestiere più umile accanto alla ricchezza, culturale e artistica d’una città carica di storia, e di benessere.
Poi mi sono tornati alla mente due dipinti appesi al muro nello studio di mia moglie. Li ho fotografati di fretta e li ho spediti a mio figlio. Ecco qua i lavatoi che hai veduto, gli ho scritto. Sono un luogo carico di suggestioni, se gli artisti hanno fatto a gara per rappresentarne lo spirito. Olio od acquarello non fa differenza. E nemmeno il tratto. L’olio di Emilio Kalchschmidt è carico di colore, steso in abbondanza, quasi per esaltare con la materia l’aria antica del luogo, fatto di case coi muri un po’ sghembi, di tetti arrangiati alla bell’e meglio, d’acqua azzurra contro il verde vago di alberi e di erbe che invadono la strada. L’acquarello, di un certo Antonello, forse Antonello Zecca, pur steso a tratti larghi e svelti, restituisce invece in maniera precisa la vita d’una città del passato, con le donne che lavano sotto la tettoia, i bambini che giocano lì vicino e alcuni passanti, svelti e indaffarati, che ignorano quanto accade loro accanto. Di sicuro hanno a mente il lavoro: sono milanesi!
Sono due concezioni della città assolutamente distanti: le case, e l’architettura povera e cupa di una Milano che sta per scomparire, nel primo dipinto; nell’altro, invece, la vita che scorre, che segna un momento che ancora non finisce, che pare sospeso, cristallizzato, nella bellezza stupefacente e luminosa del luogo, nella durezza faticosa di un lavoro che si ripete eguale da secoli.
Non so cosa Fabio abbia colto di quei lavatoi. Ma li ha guardati, di certo ne ha cercato il senso; forse non solo quello estetico, ma anche quello capace di far rivivere scintille del passato.
Milano è anche questo: magia!
Franco
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