Innesto
Doveva essere un documento molto importante se la mamma lo ha conservato con tanta cura. Dopo di lei l’ho tenuto io con ogni attenzione: è un legame importante col mio passato, dal 10 maggio del 1878.
La carta è bella, e ancora robusta: non ne fanno più di carte così, avrebbe detto il mio papà.
È resa elegante da un ornato, sul margine destro del foglio, come si fa coi documenti che contano, tipo un Diploma di Maturità, o di Laurea.
Questo che tengo in mano, e che leggo con una certa commozione, è un certificato di vaccinazione, rilasciato dal Comune di Vicenza a mia nonna, nata due anni prima.
Il vaccino contro il Vaiolo era allora da tutti chiamato “innesto”.
L’hanno fatto anche a me, alle elementari. Veniva un medico, con l’infermiera, e i bambini si mettevano in fila, col braccio nudo, per farsi raschiare la pelle della spalla con una lancetta intinta nel vaccino. Era un attimo, e nessuno piangeva.
Eravamo orgogliosi del cerotto sul braccio. Dopo qualche giorno ci mostravamo a vicenda la grossa “crosta” che copriva la cicatrice. Era il segno che, dopo un richiamo, eravamo protetti per tutta la vita.
Nessuno, che io sappia, si è mai preoccupato, o lamentato, degli innesti.
Il nome ricordava la campagna, e gli alberi che, grazie agli innesti, davano frutti belli, buoni ed abbondanti.
La nonna portava i segni dell’innesto ricevuto ottanta anni prima di me. Ne parlava come di un fatto prodigioso, di salvezza per tutti, e mi mostrava le sue due cicatrici, una per spalla.
Allora si moriva in tanti, mi diceva, sia di vaiolo, sia di tante altre malattie; anche di fame!
Franco
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