Ruare


Ormai scompaiono sotto il fango, l’argilla rossa dei colli. 

D’autunno vengono coperte dalle foglie del bosco, che rendono la strada apparentemente piana, uniforme. Solo di rado ci passa qualche motocicletta: ragazzi che praticano il cross, lacerando il silenzio profondo di questi luoghi abbandonati da dio. 

Due cavalli salgono lentamente; sono montati da signori eleganti di una certa età, che osservano il bosco indicando i toni differenti del rosso e dell’oro delle foglie sciorinando il nome scientifico delle specie, in latino.

L’antico e il moderno, mi vien da dire …


Più nessuno nota le ruare, i solchi paralleli incisi nelle pietre di fondo del sentiero dalle ruote cerchiate dei carretti. Quanti secoli di passaggi sono stati necessari per scavarle così profondamente? Ricordo i carri dei contadini trainati dalle vacche: portavano il fieno nelle tese, almeno due volte all’anno, anche tre se d’estate pioveva a sufficienza. E poi c’era la vendemmia, e la legna da accumulare per l’inverno, e poi il frumento e le pannocchie del mais, e cento altri motivi per cui il carro diventava indispensabile. 

Ad ogni passaggio le ruote cerchiate di ferro scivolavano immancabilmente nel solco del precedente; e in quelli lasciati dai padri, dai nonni e … il nome dei vecchi non lo ricorda più nessuno, nemmeno qua, dove il nome degli antenati a volte serviva a distinguere una famiglia dall’altra.


Le moto e i cavalli non badano alle ruare. Lo faccio io, salendo a piedi, insicuro per gli anni che mi rendono il passo faticoso e impreciso. Distinguo i solchi nel fango e sotto le foglie d’autunno. Lo facevano anche la mia mamma e il mio papà, ed allora erano più giovani di me. Li vedo ancora camminare attenti a dove poggiare i piedi, e non si lamentavano per lo stato della strada nel bosco. 

Sono segno della storia, dicevano, e ne erano orgogliosi.


Franco




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