Tirlindana


La barca di Mario era bellissima. Di legno chiaro, col fasciame d’assi sovrapposte così da evidenziare la linea slanciata e filante dell’imbarcazione, che era ampia abbastanza da ospitare fino a quattro persone. Era ormeggiata al lago di Levico, dove il mio compagno di classe aveva una splendida villa … la casa di campagna, dicevano i suoi. 

Ho trascorso molti bei giorni al lago, con Mario. Mi insegnarono a pescare dalla barca, con l’antichissima tecnica della tirlindana. Sulla fiancata, verso poppa, veniva montata una robusta bobina di filo di rame. All’estremità di quel filo veniva sistemato un secondo filo di nylon, dunque trasparente e quasi invisibile, cui infine si legavano le lenze, cioè gli ami, ciascuno dotato del proprio sottile filo di nylon. Era una sequenza di trappole che aumentava la probabilità, o la speranza, di qualche buona cattura.

Quando la barca raggiungeva la giusta velocità, il pescatore calava in acqua il filo per una ventina di metri, forse anche trenta. Raggiunta la lunghezza che riteneva corretta, bloccava la bobina, tenendo il filo tra le dita. Con un movimento delicato del braccio lo tirava verso la prua per lasciarlo subito andare nella scia della barca, facendolo scivolare tra le dita, attentissimo ad ogni vibrazione che si trasmetteva alla mano. 

Le esche erano tutte “artificiali”; le chiamavano mosche, a volte cucchiaini, ed erano complicatissime e stupende per forme e per colori. Grazie a quel tirare e mollare del pescatore, le mosche simulavano il dibattersi di qualche “saporito” insetto caduto nell’acqua del lago. Di quegli insetti erano ghiotti i “Persici sole”, che abboccavano in quantità. 

Squisiti, sostenevano i genitori di Mario; ed avevano ragione. 

Io imparai a remare con la tecnica regolare e precisa richiesta dalla pesca con la tirlindana. 

L’amicizia con Mario venne rafforzata da quel sodalizio da battellieri, che ci dette la possibilità di sostenere che … si andava al lago per guadagnarci il pranzo, o la cena!


Franco





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