Feste
Da noi si faceva festa il giorno della Befana.
Era festa perché si distribuivano i doni; erano soprattutto destinati a me, che ero l’unico bambino di casa. Ma anche i miei fratelli avevano pacchetti da scartare, e così ce n’era un bel mucchio sistemato sul tavolo del salotto. Era molta apparenza, però, perché di sostanzioso, a quei tempi, c’era poco da regalare; ma la festa era grande lo stesso, perché si sentiva la gioia di fare e di ricevere un dono. Eravamo tutti lì, al caldo, a scartare, a guardare, a esprimere sorpresa. Si respirava il senso della famiglia, tutti uniti, tutti stretti uno all’altro, dai nonni al nipotino più piccolo; tutti sorridenti, a volte insieme anche a battere le mani o a stringersi in un abbraccio.
Finita la cerimonia dei doni, sulla tavola compariva una grande cesta di mandarini, sistemati in un mare di bagigi e di noci. Frutta secca, che la mamma adorava.
C’era anche la torta, che si mangiava a metà; l’altra metà restava per finire il pranzo.
Era stata fatta festa anche due settimane prima, a Natale. Si era cominciato la sera della Vigilia, quando sulla tavola la Gemma aveva portato i bigoi con le sardele, una delle ghiottonerie del nonno. Io li detestavo, soprattutto per l’odore, che mi prendeva alla gola, e così le sarde, che venivano servite subito dopo. Erano la parte sostanziale del pasto: una sofferenza, così che io finivo col rosicchiare un pezzetto di formaggio, che masticavo a lungo col pane. Poi, grazie a dio, arrivava il panettone, che interrompeva il digiuno già solo con il suo profumo e con il colore delle uvette e dei canditi; questi si … li adoravo!
I grandi andavano alla messa di mezzanotte; io finivo in letto, con la Gemma, o coi nonni.
Il giorno dopo, la festa continuava alla grande, alle volte con gli zii e coi cugini che venivano a pranzo da noi. Ricordo, di quel pranzo, la mia attesa per la macedonia, che la mamma aveva già preparato la sera prima e che lasciava riposare e insaporire per tutta la notte nella stanza più fredda della casa. Era un trionfo di colori e di profumi che mi faceva andare in estasi. Il Natale era diventato, per me, la festa della macedonia.
Poi è cambiato qualcosa. Per venire incontro ai morosi delle mie sorelle, che dovevano tornarsene a casa prima della fine delle vacanze, la mamma decise di spostare la distribuzione dei doni dalla mattina della Befana alla fine del pranzo di Natale, cioè dopo il panettone e l’immancabile cesta di bagigi e mandarini che doveva troneggiare sulla tavola.
Non c’era festa senza i mandarini; la mamma non ci avrebbe rinunciato per tutto l’oro del mondo.
Quando ci si trasferì a Trento, trovai un’altra sorpresa. Lì si festeggiava due settimane prima di Natale: il tredici dicembre, il giorno di Santa Lucia. A Bolzano, come in Cadore, nello stesso giorno, cambiava il Santo, ma non la festa: si festeggiava Santa Klaus, o San Nicola, a dirla all’italiana. Si faceva festa nelle piazze, e nelle stradine del centro, con mille bancarelle e con lo scambio dei regali.
Scoprii anche un’altra tradizione, piena di poesia: nelle case, la sera del giorno prima, il dodici, si metteva sul tavolo del salotto o sul davanzale di una finestra, un piattino con un pizzico di sale e un po’ di paglia; servivano per l’asinello che accompagnava la santa portando in groppa i doni da lasciare ai bambini e alle persone buone di casa. Al mattino, infatti, al posto del sale e della paglia, si trovava un piatto di mandarini lasciati da Santa Lucia.
A quei tempi i mandarini erano un dono prezioso e colorato di cui tutti erano felici.
Insomma, cambiavano il giorno e il santo, ma restavano i mandarini!
Franco
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