La prima volta

Dopo la gara che avevo portato a termine con ai piedi una sola scarpa, il professor Pegoraro mi iscrisse al campionato studentesco provinciale. 

Non c’erano speranze per il nostro Liceo-Ginnasio: le altre scuole mettevano sempre in campo ragazzi che altro non facevano se non allenarsi, allenarsi ed allenarsi ancora. Anche se non ero uno studente modello … il papà era sempre lì, a controllarmi, a farmi capire quali erano i miei veri obiettivi. Tra questi non c’era la corsa campestre.

Insomma, arrivai alla gara che non sfiguravo né in latino, né in greco, ma nella corsa … valevo davvero poco. 

Però si correva sulla pista della scuola, la pista di casa, e a fare il tifo c’era tutta la mia classe, cioè le mie bellissime compagne, con tutto il Liceo. 

Quando l’altoparlante annunciò la mia gara, capii cosa voleva dire il professor Pegoraro: a correre c’era una ventina di veri atleti, masse di muscoli e di nervi tesi. Accanto a loro io sembravo la mascotte del gruppo, il bambino incaricato di portare il the caldo a fine gara. Feci spallucce, ripassai la strategia del professore, feci mentalmente qualche segno di croce e mi preparai allo scatto: erano solo tre giri a passo regolare e tranquillo, risparmiando il fiato, poi c’erano solo gli ultimi due-trecento metri da fare con la mia miglior falcata. “Centonovanta centimetri di statura serviranno ben a qualcosa … o no”? Ripeteva di continuo il professore.


Partirono tutti come schegge e dopo un giro mi trovai indietro di alcuni metri. Allungai il passo; un altro giro ed ero tornato nel gruppo, ma cominciava a mancarmi il fiato. “Tira fuori l’anima, e la tua falcata …” sentii gridare da bordo pista. Se avessi avuto un’anima, in quel momento si sarebbe messa a ridere. Ma non aveva il fiato per farlo. 

Con gli occhi appannati di lacrime guardai verso la tribuna: le mie compagne erano tutte in piedi! 

Scoprii così di avere una riserva di energie e mi buttai in avanti. Guardavo per terra: c’erano ancora quattro scarpette davanti a me, e mancavano solo duecento metri all’arrivo. 

Riempii i polmoni e corsi in apnea, per non sprecare aria. Mi affiancai al secondo, che cedette di schianto. Il primo era  avanti di due passi … anzi … solo di un passo … ma mi scoppiava il petto, e la testa sembrava ospitare un concerto di tamburi. 

Urlavano tutti … forse quella cosa davanti a me era il filo di lana? Non ero sicuro. Oh si, ecco il filo … 

Due metri, non ce l’avrei mai fatta. Rispolverai l’aritmetica: duecento centimetri meno centonovanta fa … Mi tuffai, testa e petto in avanti, braccia indietro, il filo non si deve toccare con le mani o con le braccia … mancai la lana rossa per una spanna … ci passai sotto cadendo lungo disteso per terra. 


Ero arrivato secondo anche stavolta! Però tutti urlavano …

Mi tornò la vista; ero a terra, dolorante, con le mani e le braccia rosse. No, non era sangue, era la polvere di mattone della pista. 

Anche il professore urlava di gioia, e mi spruzzava acqua sul viso. La prima volta che il liceo Pigafetta è sul podio di una gara di corsa, mi gridava in viso. 

Io girai la testa verso le tribune. 

Era la prima volta che qualcuno faceva il tifo per me. Anche le mie compagne. Era quello che mi importava di più.


Franco



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