Squilli 

Il telefono era appeso al muro, in corridoio. Non ricordo quando ci hanno allacciati al servizio; di sicuro ero piccolo, e l’ho sempre veduto lì, così alto che sul principio nemmeno ci arrivavo. Ricordo però che era nero, pesante, con un lungo filo che consentiva alle mie sorelle di portare la cornetta nella stanza vicina e di accostare la porta: insomma … un minimo di intimità! 

Ricordo anche che a quei tempi avevo orecchio fino, come quello di Teo, il Breton di Fernando, che sentiva ogni bisbiglio di casa, anche a quindici metri di distanza, nonostante tutte quelle grosse pareti di pietra e di mattone. Anch’io sentivo tutto delle telefonate, magari standomene in cucina, due porte più in là. Quelle delle mie sorelle erano chiacchiere interessantissime, che anche la mamma avrebbe voluto ascoltare. Così finivo per spettegolare, a mio rischio e pericolo: le mie sorelle avevano unghie lunghe, ed erano permalose. Che caratteraccio! Mi avrebbero graffiato come sanno fare i gatti.

Per le telefonate interurbane bisognava chiamare il centralino: il 12. Costava un occhio; la telefonata era a tempo, e la mamma sospirava pensando che una mia sorella s’era trovato un moroso di Cagliari e quell’altra uno di Milano. “Beh, per fortuna scrivono tante lettere”, diceva la mamma alla nonna Eride che stava sempre seduta davanti alla cucina economica a sferruzzare e a scaldarsi le mani, “pensa al conto che mi troverei da pagare alle TELVE”!

Sul principio a me non era consentito usare il telefono; però mi mandavano sempre a rispondere, e dovevo impiegare una formula precisa: “pronto … chi parla?”. Era un grande onore, una incombenza di fiducia: dovevo parlare con chiarezza e con educazione e imparare a memoria il nome di chi stava chiamando. Poi dovevo rispondere: “Attenda un secondo, per favore …” e subito dovevo correre a chiamare il papà, o la mamma, poche volte anche qualche mio fratello o sorella. 

Dovevo ricordare anche i numeri di telefono, quando me li comunicavano per farsi richiamare. Erano numeri di sole quattro cifre: il nostro era 3648, lo ricordo bene. Per telefonare agli zii componevo, alzandomi sulle punte dei piedi, il 1518. Facile da ricordare: erano gli anni della guerra!

Ho un ricordo un po’ particolare … avrò avuto dodici, o tredici anni.

Pronto … chi parla? Non mi dissero il nome. 

Ciao Fvanco, mi piace la tua evve moscia … rispose invece la voce di una ragazzina.

Chi parla?… ripetei balbettando. Dalla cornetta mi arrivò una risatina; erano in due!

Riattaccai imbarazzato, avvilito, infuriato, curioso … insomma … confuso e imbranato, come sempre.

Oggi si direbbe stalking, che non è dunque una novità.

Per un po’ mi rifiutai d’andare a chiedere chi ci stesse telefonando. 

Poi ci feci il callo … cominciai a fare spallucce se mi prendevano in giro per la mia elegantissima evve


Franco



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