Fantascienza


Ero molto orgoglioso della mia attrezzatura da forestale. Avevo portato da Padova alcuni strumenti fondamentali per misurare il diametro e l’altezza degli alberi, ed altri, molto più sofisticati, necessari per stabilirne la velocità di crescita. 

Quando arrivai alla casermetta dei Forestali e dei Carabinieri, su al Supramonte di Orgosolo, tutti ne restarono sbalorditi! 

Usate quella roba lì? - mi chiesero, forse con un cenno di sorriso ironico sotto i baffi - non vorrà rovinare quegli attrezzi … sono rari, non se ne trovano proprio più come quelli … 

Detto fatto. Mi fecero arrivare dal paese due cavalletti dendrometrici d’alluminio ed acciaio, d’ultima generazione, leggeri e robusti allo stesso tempo. 

I miei, fatti col legno di faggio, in effetti risalivano all’immediato dopoguerra: antiquariato, davvero. Servirono solo a far dubitare ai forestali di Sardegna che quel ragazzino, arrivato dal Continente, tutto poteva essere, ma non un forestale. 

Faticai sette camice per far capire loro che proprio forestale non ero … che mi occupavo di … tirai fuori i nomi più astrusi, discipline che nessuno conosceva, e così costruii intorno a me un alone misterioso di scienziato, obbligato però a cimentarsi anche con attività manuali, terra terra, da forestali di campagna, appunto … 

Un po’ me ne vergogno ancor oggi, e sono passati cinquant’anni.

Videro anche il resto dell’attrezzatura, come succhielli ed altri strumenti necessari a recuperare piccoli tasselli di legno dal fusto per poi studiarli e misurarli al microscopio. I Sardi mi guardavano, e non mi dissero nulla. Semplicemente ridacchiarono, parlando tra loro in una lingua incomprensibile, dell’altro mondo.

Bastarono un paio di giorni per capire il motivo dell’ironia: provate a forare il legno d’un Leccio. È come cercare d’abbattere un albero usando un temperino. In un attimo resi inservibili gli strumenti, e dovetti desistere dall’impresa.

In caserma ebbero anche da commentare sulla mia bellissima accetta. La guardarono e la soppesarono a turno. Tutti dissero una parola strana, che io, sul momento, interpretai come espressione sarda di stupore: bahh … Di lì a qualche giorno però riuscii a tradurre il termine correttamente: più o meno … ma che roba usano in Continente! 

Scoprii, insomma, che tra l’abete dei nostri monti e il leccio del Supramonte c’è una bella differenza. Una differenza abissale, come tra il burro e il Pecorino.

Anche la scure finì tra gli attrezzi da riportare a casa: di nascosto, con pudore.


Grazie a dio, sulle attrezzature elettroniche, tutte baluginanti di lucine colorate che s’accendevano e si spegnevano da sole, come i computer dei primi film di fantascienza, nessuno ebbe a ridire. Anzi, notai un certo stupore, associato ad una forma di ammirazione e di rispetto per chi riusciva a controllare macchine così complicate e misteriose. 

Grazie a quelle sopravvissi al Supramonte per più di tre anni. 

E poi tutti passavano di lì a vedere le macchine del professore! Da gongolare … 


Franco

Cavalletto e succhiello



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