Acqua


Il caldo dei giorni passati, pur se mitigato da violenti scrosci di pioggia, mi ha riportato alla mente l’arsura della Sardegna, quella che per tre anni ho patito al Supramonte di Orgosolo.

Sas Baddes, il guado, era uno dei luoghi in cui si lavorava. 

Lì, d’inverno, ci scorre il Cedrino. 

D’estate il ruscello si secca e tutto intorno al suo letto sassoso ci crescono gli asfodeli e i cisti, che resistono a tutto, anche al solleone e alla canicola che arroventano ogni cosa. 

D’acqua non se ne trova più, neanche a scavare tra le pietre. Poco più in su, però, ne resiste qualche pozza; per questo motivo il pastore zio Mereu proprio lì ha costruito il suo cuile. 

Un giorno di caldo impossibile, Mereu, l’amico di quei miei anni di Sardegna, mi ha condotto in un anfratto stretto tra rocce candide di calcare. Proprio lì trafilava piano piano dell’acqua, forse caduta in primavera sulla montagna che si eleva sulla piana di Sas Baddes. 

Si beve così - mi insegnò Mereu - fai attenzione … - si cavò di tasca un fazzoletto, che stese sulla pozza, poco più grande del telo, verde di alghe e grigia di chissà cos’altro - ci vuole pazienza … la tela si deve bagnare … ecco, così - e col dito fece pressione proprio nel mezzo del fazzoletto - ora si può bere. Accostò le labbra all’acqua filtrata attraverso la tela, e bevve un lungo sorso. Poi tolse il fazzoletto e se lo passò sul viso e sul collo. Aveva l’aria contenta, e rinfrescata.

Mi fece cenno di ripetere i suoi gesti. In verità l’idea mi faceva un po’ schifo, ma più del disgusto poté la sete, avrebbe detto qualcuno. 

Quella cosa era calda, ma le labbra e la gola l’accolsero con gioia. Molto meglio dell’acqua, altrettanto calda, ma anche odorosa di polietilene, che conservavo in una tanica nel furgone-laboratorio, a più di un chilometro di cammino da lì.

Acqua. 

Un tesoro davvero prezioso.


Franco




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