Cuore


Arrivavamo a Trento il sabato pomeriggio. Ogni settimana, se ci era possibile. 

La mia mamma, da tempo malata, era ormai prigioniera in casa e credo che per lei il nostro arrivo fosse come un dono del Cielo.

Dopo il primo abbraccio, che era tutto e solo per lei, la mamma mi accompagnava dal papà. 

Era un rito, che si ripeteva ogni volta, sempre eguale. Il papà mi aspettava nello studio, avvolto dall’odore dei suoi libri. In un angolo erano stati sistemati un tavolino e due sedie. Lì c’era la sua vita, il suo paradiso, dove s’estraniava dalle piccolezze del mondo: una splendida scacchiera.

Tra noi bastava un sorriso, e tre parole: muovi il bianco. Non si cominciava una partita, ma solo si studiava insieme un finale, qualcosa che il papà aveva già veduto al circolo degli scacchi che frequentava da quando era in pensione, o che aveva trovato sul Corriere, oppure su di uno dei libri scritti da qualche grande maestro. Papà voleva sentire la mia voce, e seguire così i miei pensieri. Ascoltava, ogni tanto borbottava, ma mai mi interrompeva. La mamma ci guardava, e sorrideva: i miei uomini, diceva con gli occhi. Quasi sempre il bianco riusciva a vincere in tre mosse, e il papà ne era felice. 

Solo allora potevo raccontare della mia settimana a Padova, dapprima da studente, poi da ricercatore.

Tutto finì quando il papà decise di tornare nella sua vecchia casa di Vicenza. Ormai era quasi cieco, e il suo mondo s’era chiuso in sé stesso. Andavo spesso a salutarlo, e durante il viaggio sognavo di trovarlo seduto davanti alla scacchiera. Quanta malinconia! Stanco, vecchio, affondato in poltrona, quasi più senza voglia di ascoltare i racconti della mia vita in giro per l’Italia. 

Non mi ha mai detto, allora, quali fossero i suoi pensieri. Spero che non nutrisse dispiaceri, o amarezze per il suo passato, o per la sua condizione. Gli Egizi sostenevano che Anubi, il dio dei morti, pesasse il cuore dei defunti: solo col cuore leggero come una piuma si poteva andare in Duat, cioè in paradiso.


Franco




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