S.O.S.


Il reato è ormai caduto in prescrizione. Comunque è perdonabile un po’ di goliardia, per di più se vissuta con distacco. È stato l’ultimo anno di baldoria studentesca, qua a Padova. Arrivavano ragazzi da tutta Italia, e qualche gruppo anche da altri Paesi europei. Tutti portavano la feluca, coi colori della facoltà cui erano iscritti. Gli studenti di Siena e di Pisa si distinguevano dagli altri perché il “becco” delle loro feluche era tagliato a quattro dita dal frontino del cappello; così la feluca non disturbava quando si prendeva la mira col moschetto, dicevano, e si riferivano al ’48: milleottocentoquarantotto, quando i ragazzi toscani andarono a combattere, assieme ai patrioti di mezza Italia, a Milano, Vicenza, Padova e Venezia, e caddero numerosi, soprattutto a Curtatone.

Assieme ad un mio compagno della Casa dello Studente Negri andai a curiosare in centro città. Si bevve un bicchiere all’osteria “Vini Veronesi”, di fianco al Pedrocchi, e si mangiò un boccone alla trattoria “Le Sette Teste”, dalle parti di Santa Sofia. Erano i luoghi ufficiali di ritrovo della Goliardia Padovana. Fummo così intercettati da un gruppo di anziani del Tribunato Studentesco e precettati per un lavoro concordato col Comune e con la Questura: Servizio d’Ordine Studentesco - S.O.S.

In buona sostanza avremmo dovuto neutralizzare i ragazzi un po’ alticci, evitare che molestassero la gente, impedire i danneggiamenti agli arredi della città. Io venni collocato, con una pettorina che mi qualificava per le mie funzioni, sulla porta del Caffè Pedrocchi. Subito mi accorsi che ero l’unico ad essere sobrio. Cosa potevo controllare? La cosa più saggia era starmene defilato, e zitto. Passai mezza giornata di inizio febbraio in piedi, come una cariatide di marmo: fredda, cieca, muta.

Il giorno dopo fui destinato al Teatro Verdi: grande concerto della Polifonica Vitaliano Lenguazza. In platea c’era la crème cittadina, lautamente pagante. Sui loggioni rumoreggiava il peggio della goliardia. I più scalmanati cominciarono ad usare le cerbottane con palline di carta pressata: la grancassa dell’orchestra non riuscì a mantenere il tempo; la sua voce tuonava per i colpi di cerbottana ben assestati anche durante le pause tra una “melodia” e l’altra. Il concerto finì con una pioggia di piume e di borotalco lasciata cadere dal loggione più alto; bersaglio: la folla di signore con le mises più eleganti, degne del Verdi, e dei personaggi più in vista della città, tutti rigorosamente in abito nero e papillon.

Beh … mi sarei vergognato di meno se avessi indossato feluca e mantello per girovagare in allegria tra Pedrocchi e Verdi, a consumare gli ultimi giorni della goliardia padovana.

Ogni lasciata è persa, dicevano i ragazzi di Pisa e di Siena col becco delle feluche mozzato. 

Ma forse alludevano a qualcos’altro!


Franco




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