Marcia


La palestra si trovava nel seminterrato della scuola. Ci arrivava poca luce, e per questo il maestro ci portava a far ginnastica solo in tarda mattinata; col sole alto ci si vedeva bene anche lì, senza dover accendere le lampade, neanche d’inverno. 

La palestra era una stanza molto grande, forse come quattro aule affiancate; la lunghezza bastava per farci fare gare di corsa … venti metri diceva il maestro. Era anche molto alta. Ad un passo dalla parete di fondo si alzavano verso il soffitto tre pertiche, mentre dal soffitto pendevano tre grosse corde. Le une e le altre erano la mia dannazione … proprio non riuscivo a salire, quasi neanche a staccarmi da terra; non avevo la forza per tirarmi su con le braccia o per stringere le ginocchia tanto da non scivolare e poi per spingermi in alto con le gambe. Insomma, restavo lì, penzoloni, come un salame, mentre i miei compagni di gara sembravano gatti, agili e veloci. Tra tutti, il mio compagno di banco era il gatto più svelto, quello che vinceva regolarmente le gare di salita.

Finii per amare la marcia; mi piaceva vedere i soldati che passavano sotto casa il quattro novembre, perfettamente allineati, col fucile appeso alla spalla all’altezza del fianco, col passo ritmato. Come gli ufficiali in testa ai plotoni, anche il maestro dava ordini secchi, quasi mangiando vocali o sillabe intere, oppure proprio sillabando le parole. Avanti … marc’ … gridava, e noi via, a due a due, o in tre affiancati, in attesa di un altro comando, unodue, o sinistrdestr … oppure paa-sso! E tutti a battere il piede destro per terra, e la palestra rimbombava. Caa-dénza urlava il maestro in tutto quel frastuono di suole e di tacchi, e noi tutti a battere il piede destro tre volte di seguito, così da poterci rimettere in sincronia, magari dopo un momento di distrazione. 

Trovavo bellissimi i movimenti d’allineamento prima della marcia: dovevamo voltare, a comando, il viso a destra, o a sinistra e alzare il braccio ad angolo retto, fino a toccare con le dita la spalla del vicino. 

Insomma, il maestro ci insegnava a fare i soldati, e ne eravamo felici, quasi orgogliosi. 

La prima volta che il maestro ci fece marciare in questo modo non vidi l’ora di correre a raccontarlo a casa.

Come quando ero Figlio della Lupa - sentenziò il mio fratello maggiore - … manca solo la bandoliera e il fez!


Franco




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