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Visualizzazione dei post da maggio, 2024
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  Panna Il latte ce lo portava la Irma, ogni due giorni, la sera, dopo la mungitura delle sue tre vacche. Se in casa c’era tutta la famiglia, ce ne portava un poco anche l’Amalia, che di vacche ne aveva solo due. Qualche volta, la sera, dopo aver sistemato la cucina la mamma versava il latte in una larga terrina di ceramica, che copriva con un asciugamano per evitare che le mosche vi banchettassero. Il mattino dopo raccoglieva la panna.   Era un’operazione delicata, compiuta con un grande cucchiaio che veniva fatto passare a pelo di latte in modo da cavare solo la panna, che veniva versata in una fiasca di vetro come quelle del vino, ma questa riservata solo alla panna da trasformare in burro. Quando la fiasca era piena a metà, finiti i lavori di casa, la mamma e la Gemma andavano a salutare l’Amalia. Sedute intorno al focolare, chiacchieravano o pregavano insieme.   Steso sulle cosce un grosso panno di lana, vi battevano contro il fiasco con la panna.   Il tempo di un Rosario e nel
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Pane Mi torna sempre in mente il nome Carlotta , ma forse non si chiamava così.   La memoria, dopo settant’anni, comincia a vacillare. Carlotta teneva bottega a quattro passi da casa nostra, verso la chiesa di San Pietro.   Vendeva pane, fatto da suo marito che stava sempre davanti al forno, nel retrobottega.   Usciva un profumo delizioso dalla porta di quella panetteria. Quando andavo a scuola, passandoci davanti fiutavo l’aria e mi veniva voglia di tornare a casa e rifare colazione. Andavo spesso nella bottega della Carlotta, anche solo per guardarla lavorare. Non vendeva solo il pane, comune o all’olio che fosse. Davanti al banco, bene ordinati per terra, c’erano molti grandi sacchi di carta spessa e robusta dai quali recuperava, usando sessole di metallo, diversi tipi di farina, anche di mais, bianca e gialla, e poi zucchero ed anche farina di castagne. Altri grandi sacchi erano pieni di pasta sfusa, di molti tipi diversi, compresi gli spaghetti che venivano recuperati, pesati e p
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  Primavera Che colore ha la primavera?   Era il titolo che il maestro aveva scritto alla lavagna, a sorpresa.   Compito in classe, di composizione. Ci guardammo l’un l’altro. Sguardi disperati. Cosa vorrà dire?   Assurdo - pensai - che colore possono avere le stagioni?   Proprio in quella critica trovai la risposta!   L’inverno era proprio bianco, come la neve.   L’autunno, invece, era bruno, come le castagne, oppure come le foglie che cadono per terra.   L’estate … beh, l’estate era dorata come il sole, o blu come il mare.   La primavera … avevo qualche dubbio …   La Gemma già a marzo era venuta a dirci che le gemme degli alberi mostravano il verde tenero delle prime foglie.   Le mie sorelle, però, sostenevano che la primavera cominciava solo con la fioritura dei narcisi, che sono bianchi, col cuore giallo-aranciato.   La mamma ribatteva che solo i boccioli delle rose mostravano il trionfo della primavera: guardate i colori del giardino! Difficile sostenere il contrario!   Solo io av
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  Flit La stanza da letto della mamma e del papà, a Villabalzana, aveva le pareti coperte da carta da parati.   Era carta molto vecchia: ricordo che era disegnata con linee ondulate che parevano scendere dal soffitto, come cortine di fili rosa mosse dal vento. Forse un tempo era bella, ma a me sembrava solo sbiadita, polverosa e disordinata. Tra quei disegni si nascondevano le bestiole che, ogni sera, all’imbrunire, mi mandavano a cacciare col Flit, come allora si indicava il DDT.   Non mi facevo problemi a spruzzare il veleno pensando alle zanzare; anzi, mi piaceva immaginarmi vestito con le braghe bianche, la giubba rossa e un alto cappello in testa, come i soldati in marcia armati di pompa che erano raffigurati sulla mia pompa da guerra.   Mi dispiaceva però accoppare i ragni; come me, quelli magari andavano a caccia delle zanzare da acchiappare quando s’appoggiavano sui muri. Ottima alleanza tra me e i ragni … ma alla mamma facevano paura, come fossero tutti bestiacce velenose,