Pane


Mi torna sempre in mente il nome Carlotta, ma forse non si chiamava così. 

La memoria, dopo settant’anni, comincia a vacillare.

Carlotta teneva bottega a quattro passi da casa nostra, verso la chiesa di San Pietro. 

Vendeva pane, fatto da suo marito che stava sempre davanti al forno, nel retrobottega. 

Usciva un profumo delizioso dalla porta di quella panetteria. Quando andavo a scuola, passandoci davanti fiutavo l’aria e mi veniva voglia di tornare a casa e rifare colazione.

Andavo spesso nella bottega della Carlotta, anche solo per guardarla lavorare. Non vendeva solo il pane, comune o all’olio che fosse. Davanti al banco, bene ordinati per terra, c’erano molti grandi sacchi di carta spessa e robusta dai quali recuperava, usando sessole di metallo, diversi tipi di farina, anche di mais, bianca e gialla, e poi zucchero ed anche farina di castagne. Altri grandi sacchi erano pieni di pasta sfusa, di molti tipi diversi, compresi gli spaghetti che venivano recuperati, pesati e poi spezzati in due o tre parti secondo i desideri dei clienti. Proprio allora gli spaghetti cominciarono ad essere venduti già confezionati in lunghi pacchi di carta azzurra: un chilo di spaghetti, la quantità che bastava per sfamare la nostra tribù. 

Costano di più - brontolava la mamma - ma almeno sopra non ci camminano le mosche.

Lì, dalla Carlotta, le mosche erano di casa. Erano attratte dal sacco dallo zucchero, ma le vedevo anche sui panini all’uva, lucidi di glassa trasparente, ed anche sulla Crema fritta di Chioggia, che poi era quello che io volevo che la mamma mi comperasse ogni giorno.

Contro le mosche la Carlotta aveva solo un’arma: lunghe cortine di perline di vetro che pendevano dallo stipite della porta. Credo che servissero ben poco contro le mosche, ma io adoravo passarci in mezzo aprendomi, con la testa o col viso, un varco tra quei fili colorati e tintinnanti. Sembrava salutassero!


Franco



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