Panna


Il latte ce lo portava la Irma, ogni due giorni, la sera, dopo la mungitura delle sue tre vacche.

Se in casa c’era tutta la famiglia, ce ne portava un poco anche l’Amalia, che di vacche ne aveva solo due.

Qualche volta, la sera, dopo aver sistemato la cucina la mamma versava il latte in una larga terrina di ceramica, che copriva con un asciugamano per evitare che le mosche vi banchettassero. Il mattino dopo raccoglieva la panna. 

Era un’operazione delicata, compiuta con un grande cucchiaio che veniva fatto passare a pelo di latte in modo da cavare solo la panna, che veniva versata in una fiasca di vetro come quelle del vino, ma questa riservata solo alla panna da trasformare in burro.

Quando la fiasca era piena a metà, finiti i lavori di casa, la mamma e la Gemma andavano a salutare l’Amalia. Sedute intorno al focolare, chiacchieravano o pregavano insieme. 

Steso sulle cosce un grosso panno di lana, vi battevano contro il fiasco con la panna. 

Il tempo di un Rosario e nel fiasco della panna, ormai trasformata in latticello, galleggiava un bel pezzo di burro. Veniva versato in un barattolo di vetro e conservato al fresco, in cantina, dentro un secchio d’acqua.

Qualche volta mi capitava d’arrivare in cucina prima che la mamma avesse scremato la piàdena del latte. Con un cucchiaino, o più spesso col dito, raccoglievo un po’ di panna e me la succhiavo, in barba alle raccomandazioni fatte dalle donne ai tosi di casa: non toccate questa terrina, c’è bisogno di fare il burro. 

Hai mangiato la panna! Gridava la mamma. 

Nooo … ! Rispondevo io allontanandomi per prudenza. 

C’è il segno del dito … - rimproverava lei - guarda, Franco, che la verità viene sempre a galla!

Ma pensa un po’ - avrei volentieri risposto mentre m’allontanavo - la verità non è poi tanto dura, come continua a ripetere il papà - … è morbida come il burro!


Franco



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