Salacca
Sulla strada di casa, a Vicenza, s’apriva una fila ininterrotta di botteghe.
Ne ricordo solo alcune, quelle in cui si andava più spesso a fare acquisti.
Una di queste mi affascinava più delle altre, anche se quasi mai vi si comperava qualcosa. Lì andava la Gemma a procurarsi il petrolio lampante, che lei usava per dar fuoco alle ramaglie dell’orto, a fine inverno, e poi lo zolfo e il caffaro, cioè il rame, che impiegava per contrastare gli attacchi fungini alle verdure che coltivava in quel pezzetto di terra.
Mi piaceva lo zolfo. Nella bottega della Marta ce n’erano due sacchi: uno in grossi cristalli semitrasparenti, fantastici, l’altro con la scritta “fiore”, il più costoso, che la Gemma impiegava per incipriare le sue piante usando una sorta di soffietto. Mi piaceva odorare lo zolfo, anche se subito mi prendeva alla gola dandomi l’impressione di soffocare.
C’era un altro odore che aleggiava intorno alla bottega. Sul marciapiede, a fianco della porta, era esposto un grande barile di legno, lasciato senza coperchio per farne vedere il contenuto: pesce, conservato sotto sale, cioè salacca. Mi fermavo spesso a studiare quel barile, colpito dall’ordine perfetto con cui erano state sistemate le sardine, o le aringhe, eviscerate e messe sotto sale.
Chi mangia quella roba lì? - domandavo alla Gemma. Lo sguardo della povera donna si incupiva, offuscato dal ricordo di tempi davvero grami. La risposta era lunga, e confusa; raccontava di pesce, ammorbidito con l’olio e legato per la coda ad una trave da cui pendeva fin quasi a toccare il tavolo della cucina. Così l’olio gocciolava sulla cena: polenta, fresca o abbrustolita, tagliata a fette. A turno toccavamo el scopetòn con la polenta - raccontava la Gemma - così ci riempivamo lo stomaco con la polenta e il profumo d’aringa!
Franco
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