Vecchiaia
Quando venni al mondo, il mio papà aveva quasi quarantasei anni.
I miei fratelli erano già grandi, da dieci a quattordici anni più di me. Tra scuola, compiti e amicizie da coltivare, non avevano molto tempo da dedicarmi.
Anche la mamma era anziana, come la Gemma che l’aiutava in casa, ma il papà mi sembrava quasi un nonno, sempre impegnato col lavoro; aveva i capelli candidi.
Mi faceva un po’ paura: silenzioso, burbero, severo.
Anche Dario, mio cugino, aveva il papà anziano, ma il suo mi sembrava sorridente, amichevole, coccolone.
Durante i mesi d’estate passati in campagna, quando i nostri genitori, in vacanza, stavano spesso con noi, a volte io e Dario facevamo il confronto tra i nostri “vecchi”.
Forse allora cominciammo a far di conto per risalire all’età dei papà. Calcolai che nel duemila il mio avrebbe compiuto novantanove anni: lo consideravo un traguardo raggiungibile, visto che io, in quello stesso anno, avrei toccato i cinquantaquattro anni, l’età che il papà aveva in quei giorni, su a Villabalzana.
Insomma, col nuovo secolo io sarei stato vecchio, e il papà lo sarebbe stato solo un poco di più, appena qualche anno più anziano dei nonni, che in quei primi anni cinquanta non erano proprio arzilli, ma comunque erano allegri e giocherelloni con noi bambini.
Sorrido al ricordo; ora capisco che per un bimbo la vecchiaia è proprio un tempo misterioso.
Solo arrivandoci se ne capisce il peso, e il significato.
Franco
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