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Visualizzazione dei post da ottobre, 2024
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Cumuli Sono rimasto imbambolato, perso nella bellezza di quanto mi si era fissato negli occhi. Mi capitava anche quand’ero bambino. A volte ero da solo, e così quelle nuvole immense riuscivano ad allontanare il rischio della noia pomeridiana, quella che mi inghiottiva prima che potessi incontrare i miei cugini, o gli amici di Villabalzana.   Altre volte, invece, quelle nuvole erano come un gioco. Un gioco antico come il mondo, forse inventato dai pastori che null’altro potevano fare se non guardare il gregge, o il cielo, e scatenare l’immaginazione. Eccoci dunque coi miei compagni di gioco e gli occhi puntati sui cumuli bianchi, spumosi, creati dal calore dell’estate. Ci si sdraiava sull’erba profumata dei vegri , lontani da casa, e ci si descriveva l’un l’altro quello che le nuvole, ma forse più la fantasia, ci stavano raccontando. Il vento agitava, lentamente, quei vapori pomeridiani, la cui forma cambiava in continuazione. Assumevano quella di tutti gli animali del cortile, oppure
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Diga La foto ormai dice poco, simile com’è a mille altre che mostrano la diga del Vajont ed evocano la tragedia di allora.   Sul margine inferiore della stampa c’è però una scritta chiara, leggera, fatta a penna. In quelle poche parole c’è il racconto di cosa accadde ad un bambino, quella notte del nove ottobre del ’63: intesi un boato, impaurito rimasi al buio .   Si salvò, insieme alla mamma. La loro casa fu una delle poche di Longarone che resse all’onda, o che venne solo sfiorata dall’acqua.   Del suo papà, come di tanti altri del paese, non si seppe più nulla. Nel cimitero c’è solo una targa, col nome. Quel ragazzo s’è laureato con me, e per qualche anno ho continuato ad incontrarlo a Longarone, dove mi fermavo salendo in Cadore.   Quasi non parlava: teneva gli occhi fissi su quel muro di rocce e di cemento, duecento metri più in alto, là dove c’era il lago che gli aveva rubato il padre e la serenità. Franco