Le cinque stagioni Le giornate si fanno sempre più uggiose. A volte lame di luce riescono a trapassare la foschia, o le nubi; altre volte, invece, il cielo resta cupo, plumbeo, incattivito. Si rompe la stagione! - così brontolava la nonna, con le mani tese sulla piastra del fornello a legna su cui, in quegli anni, si cuocevano il pranzo e la cena - Ormai si prepara l’inverno - concludeva sconsolata. Sorrido al ricordo. In quei tempi c’erano l’inverno e l’estate. Tra quelle due stagioni, che per me bambino erano quella della scuola, coi compagni di classe, e quella delle vacanze, ci stavano la primavera e l’autunno, le stagioni di mezzo, che però a me mostravano caratteri precisi e gradevoli … né calde né fredde, con loro propri colori e profumi, ed anche con caratteristici sapori, che gustavo in cucina. Insomma, tutte quattro mi andavano bene. Ora, in questi strani giorni d’ottobre, mi prende l’insicurezza, a volte la paura di possibili scrosci violenti di pioggia e di piene impr
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Visualizzazione dei post da ottobre, 2024
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Fagioli Ho assistito ad una conferenza in cui si trattava dell’alimentazione dei contadini, così come la poteva valutare un medico padovano del settecento. La condizione misera dei contadini di quel periodo storico non mi era nuova, ma molte novità sono state presentate in quella conferenza sul vitto dei lavoratori della campagna padovana, che per sua natura è grassa e ricca di prodotti. Ad esempio, sulla tavola dei braccianti raramente si poteva trovare carne, se non di infima qualità e al limite dell’ edibilità, e l’acqua era quella delle paludi o dei fossi, non proprio il meglio da bere. La fine della conferenza è stato preceduta dalla proiezione d’un dipinto di Annibale Carracci, Il mangiatore di fagioli , datato 1585. Il conferenziere l’ha presentato a dimostrazione della povertà dei contadini, sottolineando un gesto dell’uomo che sta affrontando una robusta ciotola di legumi accompagnata da cipollotti e da un piatto di altre verdure: stringe il pane come per difenderlo da altri
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Cumuli Sono rimasto imbambolato, perso nella bellezza di quanto mi si era fissato negli occhi. Mi capitava anche quand’ero bambino. A volte ero da solo, e così quelle nuvole immense riuscivano ad allontanare il rischio della noia pomeridiana, quella che mi inghiottiva prima che potessi incontrare i miei cugini, o gli amici di Villabalzana. Altre volte, invece, quelle nuvole erano come un gioco. Un gioco antico come il mondo, forse inventato dai pastori che null’altro potevano fare se non guardare il gregge, o il cielo, e scatenare l’immaginazione. Eccoci dunque coi miei compagni di gioco e gli occhi puntati sui cumuli bianchi, spumosi, creati dal calore dell’estate. Ci si sdraiava sull’erba profumata dei vegri , lontani da casa, e ci si descriveva l’un l’altro quello che le nuvole, ma forse più la fantasia, ci stavano raccontando. Il vento agitava, lentamente, quei vapori pomeridiani, la cui forma cambiava in continuazione. Assumevano quella di tutti gli animali del cortile, oppure
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Diga La foto ormai dice poco, simile com’è a mille altre che mostrano la diga del Vajont ed evocano la tragedia di allora. Sul margine inferiore della stampa c’è però una scritta chiara, leggera, fatta a penna. In quelle poche parole c’è il racconto di cosa accadde ad un bambino, quella notte del nove ottobre del ’63: intesi un boato, impaurito rimasi al buio . Si salvò, insieme alla mamma. La loro casa fu una delle poche di Longarone che resse all’onda, o che venne solo sfiorata dall’acqua. Del suo papà, come di tanti altri del paese, non si seppe più nulla. Nel cimitero c’è solo una targa, col nome. Quel ragazzo s’è laureato con me, e per qualche anno ho continuato ad incontrarlo a Longarone, dove mi fermavo salendo in Cadore. Quasi non parlava: teneva gli occhi fissi su quel muro di rocce e di cemento, duecento metri più in alto, là dove c’era il lago che gli aveva rubato il padre e la serenità. Franco