Diga


La foto ormai dice poco, simile com’è a mille altre che mostrano la diga del Vajont ed evocano la tragedia di allora. 

Sul margine inferiore della stampa c’è però una scritta chiara, leggera, fatta a penna. In quelle poche parole c’è il racconto di cosa accadde ad un bambino, quella notte del nove ottobre del ’63: intesi un boato, impaurito rimasi al buio.  

Si salvò, insieme alla mamma. La loro casa fu una delle poche di Longarone che resse all’onda, o che venne solo sfiorata dall’acqua. 

Del suo papà, come di tanti altri del paese, non si seppe più nulla. Nel cimitero c’è solo una targa, col nome.

Quel ragazzo s’è laureato con me, e per qualche anno ho continuato ad incontrarlo a Longarone, dove mi fermavo salendo in Cadore. 

Quasi non parlava: teneva gli occhi fissi su quel muro di rocce e di cemento, duecento metri più in alto, là dove c’era il lago che gli aveva rubato il padre e la serenità.


Franco



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