Vernacolo
Facevamo le capriole pur di vivere insieme il tempo “libero” del sabato e della domenica.
Quando si smise di frequentare l’istituto anche la mattina del sabato, avemmo finalmente l’opportunità di raggiungere il centro per qualche acquisto particolare e, soprattutto, per respirare l’aria della città.
Ci piacevano le piazze. C’era sempre confusione: l’umanità sembrava darsi appuntamento intorno al Palazzo della Ragione e Sotto il Salone. Umanità padovana, dotata di quel timbro di voce che la distingue da quella vicentina e da quella veneziana: inconfondibile! Era un gusto ascoltare i verdurai e i frutaroi di Pazza delle Erbe contendersi gli acquirenti gridando a squarciagola la qualità della loro merce. S’ascoltavano quasi le stesse parole da un capo all’altro della piazza, e le medesime battute, spesso scurrili, ma urlate in vernacolo con le inflessioni particolari dei paesi intorno a Padova, quelle dei Colli, delle grave ai confini con Vicenza e Treviso, o degli orti a est, verso Venezia.
Vardé che patate, bone da fare “alesse”, gridava un venditore e un altro, chissà da dove, rispondeva suggerendo le sue di patate, “el mejo da fare a rosto”! Anche le note col prezzo, scritte col gesso sulla carta scura dei sacchetti, erano spesso gustose, mettevano di buon umore. Ricordo i Funghi San Pignon a … non ricordo quante lire costassero a quei tempi. Per un nuovo Santo proclamato nel Paradiso dei verdurai ce n’era uno cancellato da quello dei merciai, in Piazza dei Signori: pizzo finissimo di Sciangallo, recitava un cartellino riportando il prezzo di qualche salvietta esposta sul banco d’un ambulante.
Che malinconia! Quel mondo non c’è più. I banchi si sono rarefatti, e nemmeno gli acquirenti più si accalcano nelle piazze a mantenere viva la secolare tradizione del mercato cittadino. Vi si ascoltano ormai per lo più lingue con l’accento straniero, e una improbabile battuta popolana, gridata in quelle nuove lingue, farebbe stringere il cuore a qualche vecchio padovano.
Franco
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