La via del Supramonte
5 - Spuntino
C’erano due Archa in Supramonte, e a tutti e due ci si rivolgeva con rispetto chiamandoli Zio.
Il primo, che incontravo in Caserma dove mi fermavo quando salivo verso la foresta, era il forestale più anziano della stazione, un po’ malandato e per questo destinato a funzioni di segreteria, e di cucina. Brontolava in continuazione perché nulla andava come lui avrebbe voluto. Tutta colpa di quelli che pretendono di comandare dal Continente - sosteneva - per Roma ci vorrebbe ancora Nerone - seguitava a borbottare, ma con voce alta a sufficienza che tutti sentissero. Non portava mai l’arma d’ordinanza, ma quando usciva ad attingere l’acqua fresca alla fonte, dieci metri fuori della porta, si sistemava a tracolla la doppietta: era sardo, e i sardi la doppietta devono portare!
Il secondo Archa era l’opposto. Sorrideva già da lontano, appena mi intravvedeva. E si avvicinava con la mano tesa, perché gli amici si danno la mano, per dimostrare che sono sinceri.
Era stato così fin dal primo giorno, quando venne a vedere chi si era accampato vicino al suo cuile. Vicino si fa per dire: erano cinque minuti buoni di cammino, ma lui sosteneva che mi sentiva quando parlavo tra me e me, per combattere la solitudine. Ed allora veniva a farmi compagnia: accettava di bere il mio vino, quello che portavo da casa, qualche bottiglia di Cabernet, che anche i sardi erano disposti a bere anche se era così diverso dai loro vini. Lui portava un pezzetto di formaggio, e così si mangiava qualcosa, il più delle volte in silenzio, solo qualche volta parlando del tempo, di maiali e di pecore, o di Università.
Un giorno arrivò di fretta e mi disse: vieni, ho qualcosa per te.
Era già tutto sistemato dentro la sua “casa”, fatta di fusti di ginepro e di rami di leccio, dove trovai sua moglie, salita fin là per preparare una zuppa di lupini. Me la presentò: Maria. Lei mi guardò fissandomi l’anima, e scandagliando il cuore. Disse nulla, e continuò a lavorare alla zuppa.
Zio Archa recuperò un catino, che aveva sistemato su di una mensola vicino al soffitto. Ho fatto la ricotta per te - mi disse, e con la mano recuperò un po’ della pasta bianchiccia che galleggiava nel latticello, dentro il catino ancora caldo di sole. Me la posò sulla mano, che avevo intuito di dover tendere verso di lui; un altro po’ lo diede a Maria e l’ultima parte la tenne per sé. Ci si sedette sui sassi, e mangiammo ricotta rosicchiando pane carasau.
C’hai moglie? - chiese all’improvviso Maria. Le raccontai del nostro matrimonio e di come si vivesse a Padova. I lineamenti del viso le si addolcirono, e forse anche sorrise.
Sei un bravo ragazzo! - disse, e nient’altro.
Mi diede un cucchiaio di legno e con quello si mangiò, attingendo a turno la zuppa dalla pentola, in silenzio. Zio Archa sorrideva. Contento.
Così finì lo spuntino.
E cominciò una vicinanza che durò quasi quattro anni, fino a quando terminò la nostra ricerca al Supramonte.
Franco
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