Oselle


L’anno mille è ricordato per molti importanti accadimenti. 

Drammatiche sono le cronache della disperazione di tanta gente che, radicata nella convinzione che Cristo avesse fissato la fine del mondo proprio in quell’anno (mille e non più mille), pensò di sfuggire ai terribili racconti dell’Apocalisse procurandosi la morte e infliggendola ai famigliari.

A Venezia, però, quell’anno vide grandi festeggiamenti: in maggio il Doge, Pietro II Orséolo, salpò con una flotta alla volta della Dalmazia e sconfisse le bande di pirati Narentani che saccheggiavano quelle coste depredandone le ricchezze e catturando schiavi da vendere ai Mori. 

Liberato dai pirati, l’Adriatico divenne il Golfo di Venezia e la Dalmazia fu annessa, per sua spontanea deditione, ai domini marciani dello Stato da Mar. 

Anche dalla lontana Costantinopoli venne riconosciuto l’ardimento con cui Venezia aveva riportato la pace sui mari. Al princeps della città venne conferito il titolo di Duca di Dalmazia, rendendo così ufficiale il termine Doge che veniva da tempo impiegato in laguna. 

Venne poi, per questo motivo, celebrato per la prima volta il rito dello Sposalizio col Mare.

Pochi sanno, invece, che col volgere del nuovo millennio iniziò un periodo climatico particolarmente felice, con inverni miti, travagliati solo da pochi giorni di gelo. In altre parole, a Venezia non si patì la fame, sia grazie alle abbondanti produzioni degli orti lagunari e delle campagne dell’entroterra che conferivano le messi a Venezia, sia anche grazie all’abbondanza del pescato e della caccia in laguna. Pietro Orseolo non ebbe dunque alcun problema a procurarsi le anatre che, per consuetudine, nei giorni a cavallo del Natale, venivano cacciate e donate dal Doge ai trentacinque membri del Gran Consiglio e ai suoi più stretti collaboratori. 

Era la tradizionale Festa dei Osei.

Il clima però presto cambiò, in tutti i sensi.

Gli inverni si fecero via via più rigidi e le attenzioni di Venezia si rivolsero non solo al mare, conteso dalla crescente potenza dell’Islam, ma anche alla terraferma. Il nuovo Stato da Tera divenne presto la spina nel fianco di molte potenze europee, e motivo di continui conflitti che impegnarono le energie e le risorse della Repubblica.

L’inverno del 1521 e, soprattutto, quello dell’anno successivo, furono particolarmente rigidi. Le cronache raccontano che la laguna si coprì di ghiaccio e che il cibo a Venezia prese a scarseggiare. Quasi nessuno ardiva andare a caccia, anche perché i domini della Serenissima erano percorsi da bande al soldo degli Spagnoli che rendevano insicuri sia i commerci, sia le attività agricole e quelle venatorie. 

In quell’anno, il nuovo Doge, Antonio Grimani, si trovò nell’impossibilità di celebrare il rito dei Osei. Per il Natale decise però di donare alla moltitudine dei Patrizi veneziani titolati a sedere nel Maggior Consiglio (erano ormai più di duemila persone) una grande moneta d’argento impressa con la sua effige e con quella di San Marco.

Insomma, non più Oséi, ma, come si prese a dire, forse in tono scherzoso, Oséle. Da allora il dono natalizio delle Oséle continuò fino alla caduta della Serenissima, quasi tre secoli dopo.

Il paragone è forse azzardato, ma la tradizione delle Oséle è rinata nell’Università di Padova, che fino al termine del XVIII secolo restò l’unico Ateneo della Serenissima. Al pari del Doge, che tra i Patrizi Veneziani era il Primus inter Pares, il Rettore lo è tra i Professori che siedono in Senato e nei Consigli accademici; non Patrizi per censo, ma nobili Baroni per diceria popolare. 

Ad essi, per Natale, il Rettore da alcuni decenni dona una medaglia ricordo, un’Osella, come quella della tradizione marciana.


Franco

Osela del Doge Antonio Grimani, anno 1521 



Osella del Rettore Giovanni Marchesini, anno 2000, mille anni dopo la vittoria del Doge Orseolo sui pirati.

 


L’Osella è dedicata a Giovanni Battista Da Monte, detto Montano, che a Padova fu prima professore di Medicina Pratica e poi di Medicina teorica. È conosciuto come il fondatore della Clinica Medica, che creò insegnando accanto al letto dei malati nel nuovo Ospedale San Francesco Grande, voluto ed eretto da Baldo Bonafari e da sua moglie, Sibilla De Cetto.

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