Lucio L’ultimo giorno di scuola, alla fine di maggio, la maestra Maria ci salutò con le lacrime agli occhi: andava in pensione. Mi sentii abbandonato. Per me la maestra era come la nonna: rassicurante, sempre sorridente, dolce, paziente. Come avrei potuto stare senza di lei? Il primo giorno di scuola, il successivo inizio di ottobre, il nuovo maestro, Lucio, ci accolse sullo scalone d’ingresso con un grande sorriso. Mi piacque subito: era giovane, aveva l’aria buona e tranquilla e, soprattutto, vestiva come il papà, con la giacca e la cravatta. E come il mio papà portava gli occhiali. Fatto l’appello, ci portò in palestra a giocare: ci insegnò “ palla in porta ”, un gioco in cui tutti potevano avere un ruolo ed essere utili alla squadra … anch’io, che proprio valevo nulla in ogni tipo di sport . Si, Lucio era proprio un bravo maestro, forse anche meglio della nonna Maria. Il giorno dopo scoprimmo che il maestro fumava. Ci salutò tutti, ricordando il nostro nome uno ad uno. Poi si
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Visualizzazione dei post da gennaio, 2024
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Quattrocentocinquanta Ogni tanto stampo i miei post . Scuoto la testa; non dovrei farlo, ma mi piace l’idea di averne la raccolta completa anche sulla carta, per toccarla, annusarla, per sentirne il fruscio. Guardo i racconti appena stampati … e non resisto all’idea di rileggerne qualcuno. Cerco la penna, e mi metto a correggerli, a lisciarli, a cambiare qualche parola … a volte anche la struttura dei periodi. Arrivo a vergognarmi di averli pubblicati. Accendo il computer : Il contatore di Google segna quattrocentocinquanta . Sono gli attimi a disposizione di chi volesse curiosare nel blog . Nella cartella del pc che porta lo stesso titolo, Attimi , e nel pacco di carta stampata, i racconti sono però cinquecentoventi . Vuol dire che non ho pubblicato settanta storielle. Le ho scritte e poi lasciate lì, dimenticate, forse non le ho ritenute degne di considerazione. Non andrò a cercarle. Non mi mancherebbe il tempo per farlo … ma … perché farlo? Spesso mi domando con quale
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Senza rete Mi sembrò d’essere tornato al Liceo. Appena entrato in aula, il professore distribuì un foglio e poi dettò alcune domande. Tra le altre, una mi lasciò un senso di smarrimento: cosa trovereste da mangiare per sopravvivere un paio di giorni in foresta? Pochi seppero rispondere, indicando tre o quattro possibili cibi, come castagne, funghi, nocciole, nespole, corniole … Qualcuno conosce le faggiole ? - chiese il professore. Pochissimi sapevano come fossero fatti i frutti e i semi del faggio. E solo un paio, veri montanari, sapevano che le faggiole si potevano mangiare, come i pinoli del Pino domestico e quelli del Cembro. Come fareste se si dovesse restare qualche giorno senza elettricità? - cominciai a domandare anch’io qualche anno più tardi. Avevo evocato il ricordo dei cavi elettrici spezzati dalla galaverna qualche anno prima, e quello dei molti morti per il gelo, in Canada, colpito dal vento polare che aveva stroncato i tralicci dell’alta tensione. Molti dei miei s
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Camoscio Se ne stava in disparte, defilato, ma anche fiero, come può essere un dominatore delle rocce, delle vertiginose altezze e degli strapiombi di montagna. I monti non erano più per lui, purtroppo. Zoppo chissà da quanto tempo, con una zampa spezzata e malamente aggiustata, quel camoscio era stato destinato all’invisibilità. Per questa antica ferita più nessuno lo riteneva degno d’attenzione, nonostante l’etichetta “ 245 ”, scritta col pennino e l’inchiostro color seppia, portasse indubbia testimonianza che un tempo faceva parte della collezione d’arte di nonno Orazio. Alla fine lo tenne lei, ricordando che anche papà Giulio amava quella piccola scultura di legno, scura per gli anni e lucida per il tocco di chissà quante mani. Un camoscio, ritto su di un cocuzzolo, orecchie dritte a cogliere un possibile pericolo, le corna ricurve, perfette, un trofeo che sarebbe stato ambito da tanti cacciatori. Così, zoppo e trascurato, è arrivato fino a noi. Quante sere, chiacchierand
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S.O.S. Il reato è ormai caduto in prescrizione. Comunque è perdonabile un po’ di goliardia, per di più se vissuta con distacco. È stato l’ultimo anno di baldoria studentesca, qua a Padova. Arrivavano ragazzi da tutta Italia, e qualche gruppo anche da altri Paesi europei. Tutti portavano la feluca, coi colori della facoltà cui erano iscritti. Gli studenti di Siena e di Pisa si distinguevano dagli altri perché il “ becco ” delle loro feluche era tagliato a quattro dita dal frontino del cappello; così la feluca non disturbava quando si prendeva la mira col moschetto, dicevano, e si riferivano al ’48: milleottocentoquarantotto, quando i ragazzi toscani andarono a combattere, assieme ai patrioti di mezza Italia, a Milano, Vicenza, Padova e Venezia, e caddero numerosi, soprattutto a Curtatone. Assieme ad un mio compagno della Casa dello Studente Negri andai a curiosare in centro città. Si bevve un bicchiere all’osteria “ Vini Veronesi ”, di fianco al Pedrocchi, e si mangiò un boccone alla