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Visualizzazione dei post da giugno, 2024
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Lavoro Per salire sulle rocce del Montesel mi ero graffiato le gambe con le spine di un rovo.   Sanguinavo. Cercai una foglia bella larga di non so quale erba che Danilo sosteneva essere efficacissima nello stagnare il sangue. La trovai, la posai sul mio piccolo taglio, ma servì proprio a nulla. Così avvolsi il fazzoletto intorno alla gamba. Pensai che più tardi avrei dovuto lavarlo alla fontana per nascondere i segni della mia fuga da casa. Mi sedetti con la gamba stesa al sole con la speranza che il suo calore, quasi rovente nel primo pomeriggio, facesse in qualche modo rimarginare il graffio.   Centinaia di piccole farfalle azzurre mi volavano intorno. Si posavano sulle erbe, sui fiori, sulle mie gambe e anche sulle mani, che tenevo alte a mezz’aria per offrire un appoggio.   Mi chiamarono da casa. Gridai la mia risposta girando la testa nella direzione opposta rispetto al grido della mamma. Fingevo d’essere lontano, così avrei avuto il tempo di lavare il fazzoletto alla fontana.
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B/N Ci penso spesso. Dario e Danilo se ne sono andati, e così molti ricordi di Villabalzana sono rimasti senza protagonisti. Giochi, corse, campi e stalla, chiacchiere e baruffe … erano la quotidianità, viva,   forte, luminosa. Me ne restano solo immagini sbiadite. Vieni a parlare dei tuoi ricordi su a Villabalzana? Tra di noi, con quelli che non son potuti venire ad Arcugnano alla presentazione del tuo libro? Me lo ha chiesto Carlo, anzi, Carletto , come io e Danilo chiamavamo il più piccolo del gruppo.   Ho detto subito di si, preso dall’entusiasmo di poter rivivere tante amicizie dopo così tanto tempo: sessanta, settant’anni … Quali amicizie? Di bambini c’eravamo solo noi, che oggi superiamo i settant’anni. Tutti gli altri ragazzi di lassù avevano almeno l’età dei miei fratelli, e dunque sarebbero oggi quasi novantenni. Se ancora c’è qualcuno di loro. Me ne rendo conto solo ora: parlerò della mia vita, e della mia memoria, quasi a degli sconosciuti. Nessuno può ricordare i miei nonn
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  Sete Poca acqua quest’anno!   Mi voltai di scatto, perdendo quasi il difficile equilibrio sulla tavola sul castello di tubi alzato intorno al grande leccio, a Sos D’Orani , dove si faceva ricerca al Supramonte d’Orgosolo. Come sempre Ziu Arca era arrivato silenzioso. Un fantasma nella foresta. Si era seduto sul pianale del furgone, e mi guardava maneggiare gli strumenti sistemati intorno al leccio.   Doveva aver letto i miei pensieri, perché stavo ragionando sulla siccità di quei mesi, di cui, secondo le misure strumentali, stava patendo anche la grande quercia. Salutai il pastore con la mano, facendogli segno di aspettare un minuto.   Lo raggiunsi, recuperai la bottiglia che avevo portato dal Continente , e restammo lì, in silenzio, a sorseggiare un bicchiere di Cabernet . Lo stesso viso corrucciato di Ziu Arca l’avevano anche Angelo e Marcello l’anno in cui il rubinetto della fontana aveva cominciato a dare solo un misero filo d’acqua, quasi tiepida nella calura di quell’estate.
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Semina Al giogo c’erano le due piccole vacche di casa, magre, lente. Marcello le guidava a voce, tenendo con forza le stegole del timone dell’aratro. Il coltro entrava ben poco nella terra rossa e sassosa di Villabalzana e il versoio ribaltava piccole zolle argillose, lucide e compatte. La scena, veduta più volte da bambino, m’ha lasciato un ricordo di fatica, ed anche di amarezza per un lavoro spesso ingrato. Ricordo anche Angelo in equilibrio precario sull’erpice tirato dalle sue due vacche. Le zolle si frantumavano, e nell’aria si spandeva il profumo della terra lavorata, che poi era ancora l’odore della fatica. Ricordo poco o nulla della semina, se non l’andare avanti e indietro sul campo, a passi lenti e regolari, il gesto forte e preciso della mano e del braccio che buttavano lontano le sementi. L’immagine del seminatore provenzale me l’ha spedita Michele. Lo schizzo a colori forti e vivi, come Van Gogh ha definito la sua opera, racconta dei giorni consumati sui campi, con la
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  Salacca Sulla strada di casa, a Vicenza, s’apriva una fila ininterrotta di botteghe. Ne ricordo solo alcune, quelle in cui si andava più spesso a fare acquisti.   Una di queste mi affascinava più delle altre, anche se quasi mai vi si comperava qualcosa. Lì andava la Gemma a procurarsi il petrolio lampante, che lei usava per dar fuoco alle ramaglie dell’orto, a fine inverno, e poi lo zolfo e il caffaro , cioè il rame, che impiegava per contrastare gli attacchi fungini alle verdure che coltivava in quel pezzetto di terra.   Mi piaceva lo zolfo. Nella bottega della Marta ce n’erano due sacchi: uno in grossi cristalli semitrasparenti, fantastici, l’altro con la scritta “ fiore ”, il più costoso, che la Gemma impiegava per incipriare le sue piante usando una sorta di soffietto. Mi piaceva odorare lo zolfo, anche se subito mi prendeva alla gola dandomi l’impressione di soffocare. C’era un altro odore che aleggiava intorno alla bottega. Sul marciapiede, a fianco della porta, era esposto