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Visualizzazione dei post da agosto, 2024
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Ragazze Mi piaceva da impazzire.  Aveva diciassette anni, forse diciotto, capelli lunghi fino alle spalle ed occhi neri, che sembravano animati da lampi di luce: carboni accesi.  Stava spesso nella guardiola del portiere, a casa di Isa, a Cagliari, e mi sorrideva sempre quando passavo.  Servono dieci lire per l’ascensore, mi diceva, se non ne hai eccotene qua …  Me la trovavo accanto, e ne sentivo il profumo.  Mi turbava. Ogni tanto ci pensavo …  Pensieri miei, che custodivo gelosamente, specie lì a Cagliari, dove ero sceso dopo la maturità. Un mese intero di vacanza, libero, ospite di mia sorella. Un giorno sentii parlare Isa con la ragazza della portineria. Quasi bisbigliava, e usava anche qualche parola sarda. Lascialo stare - le diceva - … è poco più di un bambino, non te ne accorgi? Parlava di me. In un attimo tutta la mia autostima da neo-studente d’Università evaporò nell’aria rovente della Sardegna. Quella sera nemmeno partecipai al coro di canti rivoluzionari intonati da Carlo
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  Dono Mamma era già molto malata quando venne costruita la casa di Ronzone. Amava questo luogo, anche se era così diverso dalla sua Villabalzana.  Nei primi anni che si saliva fin quassù, subito dopo la fine delle scuole, la vedevo impegnarsi allo spasimo pur di raggiungere il bosco, cioè l’aria fresca e profumata sotto gli abeti; voleva camminare, anche se molto lentamente, e guardarsi intorno.  C’è un fungo, Franco, ne sento il profumo.  Continuava a chiamare i porcini col nome che usava a Villabalzana: carpanoti , diceva, perché a casa sua, sul monte, i porcini più belli crescevano sotto le Ostrye , le carpinelle.  Amava anche i funghi del pin , cioè i lattari; se ne trovavano a decine, e già ad avvertirne il profumo a lei veniva l’acquolina in bocca, intrigata all’idea di cucinarli in forno, ripieni di pane grattugiato, prezzemolo, olio e cognac . Negli ultimi anni faticava anche solo a muoversi per la casa. Eppure metteva tutte le sue energie per scendere sul lastricato d
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  Vecchiaia Quando venni al mondo, il mio papà aveva quasi quarantasei anni.   I miei fratelli erano già grandi, da dieci a quattordici anni più di me. Tra scuola, compiti e amicizie da coltivare, non avevano molto tempo da dedicarmi.   Anche la mamma era anziana, come la Gemma che l’aiutava in casa, ma il papà mi sembrava quasi un nonno, sempre impegnato col lavoro; aveva i capelli candidi. Mi faceva un po’ paura: silenzioso, burbero, severo.   Anche Dario, mio cugino, aveva il papà anziano, ma il suo mi sembrava sorridente, amichevole, coccolone. Durante i mesi d’estate passati in campagna, quando i nostri genitori, in vacanza, stavano spesso con noi, a volte io e Dario facevamo il confronto tra i nostri “vecchi”.   Forse allora cominciammo a far di conto per risalire all’età dei papà. Calcolai che nel duemila il mio avrebbe compiuto novantanove anni: lo consideravo un traguardo raggiungibile, visto che io, in quello stesso anno, avrei toccato i cinquantaquattro anni, l’età che il pa
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  Baroni Una volta c’erano i baroni. Comandavano a bacchetta, e il “suddito” provava quotidianamente il terrore di non essere all’altezza per soddisfare i desideri del sovrano.   Io m’ero anche convinto d’essere un privilegiato! Trascorrevo le vacanze in montagna, forse nel luogo più bello e affascinate del mondo, nel cuore aguzzo e colorato delle Dolomiti.   Fortunato davvero! Escursioni giorno dopo giorno, zaino in spalla, a fare ricerche tra i boschi e i pascoli delle valli cadorine e ampezzane, a bere l’acqua limpida e fresca dalle sorgenti e da garruli ruscelli, esplorando panorami mozzafiato, il silenzio intorno a me, con l’unico rimpianto di non poter condividere tanta pace e tanta bellezza con la morosa. Lontana, boccheggiante nel caldo afoso di qualche spiaggia, o scogliera, giù, in Meridione. Stavo assaporando in punta di coltello qualche pezzetto di tonno in lattina, seduto su di un sasso ai piedi delle Rocchette di San Vito, 2200 metri, ai margini della vegetazione arborea.
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  Scrivere Scambio spesso qualche pensiero con Michele. In chat . Michele mi stuzzica; è intrigante. I suoi messaggi lasciano sempre il segno, mi toccano profondamente; Michele sa usare le parole. Qualche giorno fa mi ha inviato una pagina di giornale col breve racconto di uno scrittore affermato; l’intento dichiarato dal giornale è quello di suscitare l’interesse dei lettori per la lingua italiana e l’abilità con cui gli scrittori maneggiano le parole.   Il racconto è di Paolo Rumiz. Adoro Rumiz, e Michele lo sa. Credo d’aver letto tutti i suoi libri, gustando parola dopo parola, con ammirazione per il suo vocabolario raffinato e la limpidezza del pensiero.   Quando, raggiunta la pensione, per impiegare il mio tempo, ho pensato di scrivere qualche pagina di ricordi, Rumiz m’è tornato in mente mille volte; e scuoteva sempre il capo per farmi intendere la sua perplessità sulle mie pagine. Maestro severo, Paolo Rumiz, e può ben esserlo visto che, proprio in questi giorni, ha vinto un pre