Memoria Sono stato colto da un attimo di nostalgia al ricordo dell’aula in cui tenevo lezione e degli studenti che mi ascoltavano, tanti anni fa. Li ho rivisti, stipati nella sala ad emiciclo, e m’è tornato alla mente uno dei migliori, che si nascondeva su, in alto, per non essere vittima delle mie domande vigliacche , con parole difficili, spesso in greco. Aveva il Liceo Classico alle spalle, ed era piacevole sentire le sue risposte, sempre precise, spesso condite di arguzia. Ho cercato nel computer le dispense di quegli anni, col desiderio di recuperare un paio di immagini di cui avevo discusso a lezione, argomentando proprio con quello studente. Non le ho trovate e, ancora una volta, mi sono vergognato del mio disordine. Da qualche parte devo pur aver archiviato quei file - mi sono detto - e soprattutto quelle due immagini d’ esoterismo ; le avevo corredate con un lungo commento, che speravo servisse a stimolare la curiosità negli studenti, e magari qualche lettura in più
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Visualizzazione dei post da aprile, 2023
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Stemma Il diploma di Valerio mi intriga; continuo a pensarci, mi rode quel mistero che contiene … e che avrei potuto risolvere cinquant’anni fa. Forse mi è sfuggito un indizio, e così l’ho riletto, ed ho rimuginato ogni parola. Ad esempio, si legge che Valerio è dominus , cioè signore, che significa benestante . Nel 1717 non dovevano esserci molti dottori come lui; ci volevano quattrini per frequentare le lezioni, per pagare i professori e poi per mantenersi fuori sede . Si sa che gli studenti s’aiutavano tra loro: le diverse nationes , i gruppi regionali o nazionali che si formavano a Padova, servivano anche al reciproco sostegno. Ho così pensato di passare in rassegna gli stemmi che ornano le pareti del Bò, potrebbe esserci anche quello di Valerio, Vicetinus . Ma no … scordavo la cosa più importante: il cognome! Valerio si chiamava Bisogno . Terribile. Non è proprio un gran patronimico. Ho però pensato di cercare Bisogno in rete. Avara, questa volta, la rete. Ho scavato quind
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Mistero Resterà un mistero. Non ho fatto in tempo a chiedere spiegazioni al papà, o alla mamma. Sarebbe bastata una domanda: chi era Valerio Bisogno, Vicentino? Ormai so soltanto che, il giorno 24 maggio dell’anno 1717, egli ottenne la Patente di Giurista dall’Università di Padova, ricevendo la lode unanime del Collegio dei Professori, come è indicato nel diploma che poi il Vescovo ha sottoscritto. La patente è capitata a me, inconsapevole conservatore di un Atto che i miei genitori hanno custodito con ogni cura ed attenzione. Sono fogli di pergamena contenuti in una custodia di marocchino. Il documento è vergato a mano, con grafia minuta, regolare, ornata di svolazzi e di capilettera sontuosi. Gli inchiostri sono di colore nero, rosso ed oro. Provo emozione a sfiorare la pergamena con le dita. Ne avverto l’importanza, e il profumo del tempo; tre secoli sono tanti! Percepisco anche la presenza dei professori, con l’ermellino posato sulle spalle e il tocco di raso calcato s
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Aquila La prima volta che l’avevo vista, mi ero spaventato a morte. Così, quando mi davano da sfogliare il libro sugli animali, evitavo con cura di posare lo sguardo su quella immagine. L’aquila volevo proprio non vederla. Mi arrovellavo nell’ansia di capitare, per sbaglio, sulle pagine dedicate a quell’uccello. Quando avevo veduto quel disegno, avevo subito capito che ritraeva il più grande tra tutti i rapaci; era enorme davvero, e veniva mostrato mentre volava ad ali spiegate sopra le cime di montagne, altissime e paurose. Per me terrifici erano soprattutto il becco adunco, e gli occhi che parevano esprimere ferocia, cattiveria. Ma poi c’erano gli artigli, immensi, fortissimi. Con le unghie reggeva, in volo, una bambina! Era evidentemente morta; uccisa dalla stretta delle zampe. Si capiva che era stata rapita da casa, forse ghermita al volo mentre giocava in cortile, con la mamma accanto, e magari custodita anche dal cane. Così, col libro sulle ginocchia, finivo con l’imm
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Ecologia Nei primi anni del XVI secolo, Tristão da Cunha, capitano di un vascello portoghese, scoprì un’isola sperduta nell’oceano Atlantico. Non potè sbarcarvi per esplorarla e prenderne possesso; non c’era alcuna spiaggia, e nemmeno una insenatura riparata dal vento e dai marosi: difficile scendere a terra. Da Cunha segnò l’isola sulle mappe e ad essa attribuì il suo nome, che venne accettato e confermato dai cartografi dell’epoca. Lo mantennero anche gli Inglesi che, quasi due secoli più tardi, vi sbarcarono e vi insediarono una piccola guarnigione ed alcune famiglie di contadini e pescatori. Oggi l’isola è citata in quasi tutti i trattati di Ecologia. La sua distanza dai continenti, almeno 2500 chilometri dall’Africa e più di 3000 dall’America Meridionale, la rende infatti un ottimo esempio di isolamento ecologico. Lì, infatti, moltissime specie di piante e di animali si sono differenziate, distinguendosi per forma e per comportamento, dalle consorelle dei continenti “ vicini ”
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Storia Patrizia ne conosce ogni pietra; conosce anche quelle che il tempo s’è portate via, e sa dare voce al vuoto che è rimasto al posto dell’antico monastero. Quello di Santo Stefano di Carrara. Senza di lei avrei veduto soltanto una chiesa, e ne avrei ammirato la millenaria semplicità. Un cartello, sul sagrato, mi aveva informato su quando venne costruita. Io sono fortunato: ho potuto anche ascoltare Patrizia, che ha studiato a fondo quel luogo, e la sua storia. Così sono riuscito a camminare nel tempo, andando indietro di mille anni, e scoprire vicende che mi erano del tutto sconosciute. Non c’è altra parola che possa meglio esprimere quanto ho provato: emozione . È l’impressione viva, il turbamento, forse anche l’eccitazione che mi assale scoprendo il mio passato, gli avvenimenti che hanno dato forma al mio presente. Alla fine del settecento l’abate Ceoldo scrisse le memorie di questa chiesa, ha spiegato la nostra guida, ed io subito ho annotato questa preziosa informazion
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Gavetta Non giocare con la gavetta - mi implorava la Gemma - la ammacchi tutta, così poi spande … e non si può più usare … Ma cos’è sta gavetta ? Domandai io di rimando. Ci si mette dentro il cibo, quello che gli operai poi mangiano a mezzogiorno. Questa gavetta è bella, perché è fatta di rame stagnato, ed ha una forma speciale, in modo da poter scaldare il cibo che c’è dentro, come fosse un pentolino … vedi, basta mettere un po’ di braci qui dentro, un po’ sotto, e un po’ sopra il coperchio, vedi? Restai affascinato; l’idea che si scaldasse il cibo dentro alla gavetta mi aveva fatto crescere la voglia di sperimentare un gioco nuovo … bisognava solo fare le braci, magari coi fiammiferi della cucina … Quello è venuto su dalla gavetta ! Aveva aveva detto il papà riferendosi al Bepi, un tecnico con cui lavorava spesso. Come faceva a starci il Bepi nella gavetta ? Mi sono subito domandato. Ce ne vuole una grande come un pentolone … come quello visto sul giornaletto dedicato alla esp
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Surrogato Stava appeso in cucina, a Villabalzana, sopra al fornello a legna. Alle mie domande su quel ferro annerito, la mamma e la Gemma rispondevano che serviva per abbrustolire i semi. Ah, dicevo io, allora ci posso fare i pop corn ? Le donne ridevano; ci vuole il fuoco, le braci, la cenere calda, tanto tempo, e tantissima pazienza ed attenzione. Non mi sembrava che stessero rievocando ricordi piacevoli, ed io non insistevo. Quell’attrezzo mi è tornato in mente grazie ai romanzi di Maurizio De Giovanni. Egli racconta che al tempo del commissario Ricciardi, cioè negli anni ’30, al posto della polvere di caffè si usava un surrogato ottenuto dai semi tostati e macinati di frumento, orzo o mais. Ho capito a cosa serviva l’attrezzo conservato a Villabalzana, fatto di due semisfere di ferro saldate a due lunghi manici e chiuse da un gancio. La “palla”, riempita con la giusta quantità di semi, si metteva ad arroventare sul fuoco, o tra le braci. Anche la Gemma mi aveva raccontato c
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Ricci Bart, il cagnolino di Gabriele, ha scovato un riccio che, in giardino, s’era acquattato sotto la siepe. La Patria va difesa da ogni invasore, deve aver pensato, dotato com’è di eroico senso del dovere. Dopo qualche puntura sulle zampe, sul tartufo e sul resto del muso, Bart ha cercato il mio aiuto: abbaiando disperatamente. Il riccio, grande come un pallone da rugby, ovviamente non ha fatto una piega. Io invece mi sono precipitato in giardino temendo che Bart si fosse fatto male. Dopo qualche tentativo di sedare la zuffa, ho pensato che sarebbe stato opportuno informare i genitori di Gabriele di quanto stava accadendo. Mentre mi accingevo a scrivere un messaggio, mi son venuti in mente Pigrete ed Omero, col mio professore di greco che declamava i versi dalla Batracomiomachia , Guerra tra rane e topi , disquisendo su chi, tra i due poeti, fosse stato l’autore della gustosa parodia dell’Iliade. Così, stupidamente, m’è venuto da scrivere: è in corso una Bartoricciomachia , ho
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Lungo, corto Il professore distribuiva un foglio protocollo. Andava piegato in due, nel senso della lunghezza. Si scriveva, nome compreso, nella metà sinistra; la destra restava libera per le osservazioni e per le correzioni del professore. Il titolo del tema era invece riportato su tutta la larghezza del foglio. Un’ora per comporre. Un’ora di pena, di sofferenza. Rileggevo dieci volte il titolo, poi rimestavo nella poltiglia opaca della mia mente con la speranza che vi riemergesse qualche idea, qualche pensiero da riportare nella metà del foglio che avevo a disposizione. Quando, scrivendo a caratteri grandi, e con molti punto e a capo , riuscivo a voltar pagina e ad attaccare la seconda facciata, tiravo un sospiro di sollievo. - Franco! Ma proprio non riesci a tirar fuori un altro pensiero? Dieci righe in più sono troppe? Ci vogliono le tenaglie per cavar fuori le parole? - Immancabilmente era il primo commento del professore. Una professoressa ieri mi ha detto: altro che at
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America Con Eugenio ormai usciamo da soli in cerca di esperienze tutte nostre. Cioè da tenere segrete. Lungo il viale principale del Lido c’è un bar che vende gelati. Ci attira una macchina fantascientifica: si preme un bottone, si tira una leva e ne esce gelato, colorato, spumoso. Se ne sente il profumo da lontano e ci viene l’acquolina in bocca. Questo è gelato americano, sentenzia Eugenio, che ha il culto dell’America, paese dove si inventano tutte le cose più incredibili. Il futuro è lì, di là dall’oceano. Siamo andati lungo un canale poco distante da casa dove c’è un pontile al quale attraccano barche di pescatori. Lì crescono canne, in mezzo alle quali ci si può nascondere. Abbiamo prelevato una sigaretta dal pacchetto da cui la zia attinge molto di frequente. Ci accucciamo tra le canne ed Eugenio si mette la sigaretta in bocca. Fa fatica coi fiammiferi, ma alla fine riesce a portare la fiamma alla sigaretta. Aspira, e subito me la passa. Aspiro anch’io. Mi gira la testa e
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Prato Era il gioco che aiutava la conoscenza reciproca. Lo si faceva tra bambini e, un po’ più grandicelli, serviva a tastare il terreno quando s’avvertiva il fremito d’una cotta. La fila delle domande era lunghissima, dalle letture, ai sapori, dalla musica ai luoghi visitati, agli sport praticati … ma in mezzo c’era sempre: qual è il colore che preferisci? Io mi ero incaponito sul verde. Un colore che pochi consideravano, forse perché ritenuto troppo comune, quasi banale. Verde come l’erba … roba da mucche o da caprette. Stare al verde … non è dignitoso. E poi nei film americani c’era sempre un riferimento ai biglietti verdi, cioè ai dollari, e l’associarsi al denaro era considerato poco fine … burino , avrebbero detto i romani. Vuoi mettere il rosso della passione? O l’ azzurro del cielo? Il blu del mare, il rosa delle pesche e il giallo oro del sole? Andava bene anche il viola , che pure ha un che di penitenziale, ma è una tinta decisa e delicata insieme, quella del fiore pi
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Alto, basso, caldo, freddo … Caspita, Pasqua è alta , quest’anno! Riecco l’espressione, un po’ strana, di cui avevo chiesto spiegazione alla Gemma. Alla fine avevo capito che la Pasqua restava sempre la stessa festa, che non aveva alcuna misura particolare, ma si diceva che era alta o bassa, o che cadeva alta o bassa, a seconda del giorno e del mese in cui veniva collocata nel calendario. Non mi sono azzardato a chiedere spiegazioni sul perché ogni anno la Pasqua venisse messa nel calendario in giorni differenti; dipende dalla Luna , aveva esordito la Gemma. Lì la fermavo: sapevo già, per esperienza, che quando c’era di mezzo la Luna le cose si mettevano male per me. Chi si arrabbiava, o si innervosiva per qualcosa in cui ero coinvolto, per definizione gli veniva la Luna, o aveva la Luna storta. Meglio lasciar perdere … Però fa freddo, quest’anno. Anche se Pasqua è alta , metà di aprile, andiamo cioè verso mezza primavera, pare d’essere ancora in inverno. Ecco tornarmi ancora i