Post

Visualizzazione dei post da settembre, 2022
Immagine
Chicco Qualche volta andavo a casa sua per giocare a scacchi.   Sua madre ne era felice. Lui era veramente bravo, ma capitava che vincessi anch’io.   Avevamo sette anni; non potevamo essere esperti di strategia.   Un paio di trucchi li avevamo però imparati; io dal mio papà, lui non so da chi.   Per un poco cercammo di applicare gli schemi conosciuti di apertura e di difesa, ma presto capimmo che non era un buon sistema per giocare, e cominciammo ad improvvisare.   Da quel momento ci divertimmo davvero con gli scacchi.   Essendo compagni di classe, avevamo anche motivo per fare i compiti insieme.   Chicco si interrompeva spesso, e mi proponeva una partita. Riprendevamo i compiti al termine del gioco.   Mi convinsi che per lui libri e scacchiera erano quasi la stessa cosa: un dovere! Chicco cambiò città alla fine dell’anno scolastico.   Persi il mio compagno di gioco, e per me gli scacchi non ebbero più lo stesso interesse. Molti anni dopo, forse quaranta, incontrai Chicco alla stazione
Immagine
  Camosci Ancora non sapevo che il mio cuore faceva le bizze, e mi ostinavo a salire in montagna fingendo che tutto andasse per il verso giusto. A volte mi dovevo fermare: il mal di testa vinceva contro la buona volontà.   Il mio amico Michele quel giorno capì che qualcosa proprio non andava. Mi prese per un braccio, suggerì ai miei colleghi d’andare per conto loro, e mi guidò per quel suo mondo fatato d’Ampezzo dove ben pochi s’avventurano abbandonando i comodi sentieri. Dovetti sedermi su di una larga ceppaia. Mi restò accanto, in silenzio. Fu allora che avvenne il prodigio. Erano decine e decine. Femmine di camoscio, coi piccoli. Il vento aveva impedito al nostro odore d’arrivare fino a loro. Le mamme se ne stavano in disparte; pochi metri da noi. I piccoli, invece, ancora ignari del pericolo portato dagli uomini, ci saltellavano intorno, venivano ad annusarci, ci salivano sugli scarponi, le zampine posate sulle nostre ginocchia, belando felici come fanno i cuccioli di ogni specie d
Immagine
  Oleandro Un anno maledetto, questo che da poco è giunto all’autunno.  Nel caldo soffocante della primavera e dell’estate, per mesi e mesi ci è mancata l’acqua.  Il giardino è giallo e bruno di alberi e di cespugli rinsecchiti. Mi sta regalando legna buona per l’inverno; ma il dono non mi dà alcuna gioia.  L’unica pianta che pare non aver risentito di questa follia del tempo è l’oleandro.  Tre piante coprono l’ingresso di casa. Sono cariche di fiori. È la seconda fioritura di quest’anno strano e terribile. Mi rallegra, ma l’oleandro è specie di cui diffido. Si racconta che i soldati di Napoleone siano morti a decine, avvelenati dalla carne che avevano cotto alla brace, in Egitto.  Brace di oleandro. Una delle specie più tossiche che esistano. Non so se sia storia vera quella della strage dei soldati francesi.  Ma è sicuramente vero che Nerium oleander è specie velenosa. Però è rustica, stupenda, generosa di fiori che incantano, che sanno donare fascino anche ai paesaggi p
Immagine
Galapagos Darwin morì vecchio, per i suoi tempi. Molto più vecchio di Fitzroy, il comandante del brigantino Beagle , che lo accompagnò in giro per gli oceani di mezzo mondo, lui per piantare la bandiera inglese ovunque ve ne fosse l’opportunità, Darwin per soddisfare la sua curiosità scientifica.   La leggenda vuole che Darwin e Fitzroy, padre della moderna meteorologia, chiacchierassero a lungo su quel guscio di noce che solcava i mari, ed avevano idee assolutamente divergenti: radicalmente legate alle verità rivelate il marinaio, pronto a spiegare ogni cosa con la scienza il futuro maestro dell’evoluzionismo.   Qualcuno racconta che Fitzroy morì suicida quando Darwin presentò le sue “ teorie ” alla Royal Society, molti, ma molti anni dopo averle messe per iscritto senza mai pubblicarle.   Darwin era carico di dubbi, o di paure. Sentiva il peso di un possibile contrasto tra scienza e fede. Forse un   ricordo di quegli anni di navigazione! Darwin però morì prima di Wallace, il medico c
Immagine
  Antonietta Era una bambina graziosa, e gentile. Portava i capelli raccolti in una treccia, fermata con un fiocco. Giocava spesso con me, anche se era di un anno più grande. Abitava al piano sopra casa mia, ed era un attimo raggiungerla per stare insieme. Suo padre aveva raccolto un sacco di cose in soffitta, e il nostro gioco preferito era rovistare nel buio del sottotetto alla ricerca di un tesoro nascosto.  Non trovammo mai nulla, ma già superare la paura del buio e poi raccontarci quello che avevamo immaginato di vedere, per noi era un tesoro. Del resto … questa è l’amicizia: condividere i sogni, e la fantasia. Antonietta cambiò casa di lì a poco. E sentii di aver perduto qualcosa di veramente importante per me. Ciao Franco, ti ricordi di noi? Me lo chiese una signora sui sessanta; più o meno la mia età.  Avevo appena terminato una conferenza, a Vicenza. C’erano cento persone vocianti intorno a me, tutte insieme a chiedermi qualcosa e a creare le condizioni per non ott
Immagine
  Cravatta   Mi sentivo perfetto! Jeans azzurri, finalmente della giusta lunghezza in barba ai miei 192 centimetri, 114 di gamba. Maglietta elegante, celeste pallido, con una imitazione del mitico coccodrillino cucita sul petto. Scarpe ben spazzolate, anche se quelle mie desert boots avrebbero potuto brillantemente convivere con la polvere, di cui avevano il colore. E poi … una linea invidiabile! Dritto come un fuso, poco più di settanta chili, nessun accenno di pancetta. Ed invece, come entrai in istituto, tutta la considerazione che quella mattina avevo di me evaporò in un attimo. Franco, mi disse il capo, il chiarissimo professor S. direttore dell’istituto, è meglio se viene in giacca e cravatta.  Credo che abbia apprezzato la prontezza della mia risposta, anche se non me lo diede a vedere. Sarà dal mese prossimo, professore, sempre che mi basti lo stipendio.  Qualcuno si prese la briga di dirmi che con quella battuta mi ero bruciato la carriera, giusto sul nascere.  Va b
Immagine
  Slava È la cosa più assurda che mai ci siamo portati a casa. Ce l’offrì il nostro corniciaio di fiducia che di mestiere aveva fatto anche lo svuota-cantine e che poi aveva continuato proponendo in conto vendita oggetti di cui i suoi clienti volevano disfarsi. Eravamo andati a ritirare qualcosa che ci aveva incorniciato.  Stava sistemando su di una mensola una gran quantità di cianfrusaglie colorate. Ce le volle far vedere, sostenendo che ci avrebbero di sicuro incuriositi. Così si mise a mostrarci gli oggetti più strani, dalle macchinine a molla degli anni ’50 ad un Pinocchio bianco e rosso in legno, snodato, dalle biglie di vetro e di terracotta al gioco del domino in bachelite.  Un campionario tenerissimo di ricordi della mia infanzia. Cercai di non tradire commozione, e resistetti a fatica alla tentazione. Ma fui determinato: non avevo più posto in casa, altrimenti …  Alla fine ci rincorse con il suo pezzo forte: guardi qua, disse, l’ha fatta un mio cliente.  Non le poss
Immagine
  Batocio Siamo a carnevale, e si sono vestiti da Arlecchino. Non sono bambini … sono ragazzi, e forse stanno parlando di tose … vogliono andare a divertirsi … Mah, per me non è così. Non mi convincono né la postura, né la faccia. Si, d’accordo, sono Arlecchini , ma l’artista ha scelto quel personaggio perché è simpatico, ma di dubbia moralità. Arlecchino non è solo la maschera veneziana, o il buffone della commedia dell’arte francese e veneta. Arlecchino era un tipo tosto, che campava di espedienti, vendendosi al miglior offerente, e girava sempre armato di randello. Arlechin batocio , si diceva dalle nostre parti, e non era una battuta spiritosa; evocava il pericolo. Come i bravi del Manzoni, che tanto bravi non erano. Eppure hanno l’aria di ragazzetti. Guarda, uno sorride, l’altro è accosciato, e sembra pensare ad un gioco, forse sta proponendo di andare al campetto per tirare qualche calcio al pallone … Ma dai, e tu giocheresti a pallone vestito così? E col cappuccio in testa? E
Immagine
  Corso   Eravamo una dozzina. Non più ragazzini. Iscritti ad un corso che ci interessava molto poco, avevamo deciso, tutti insieme, di marinare.   Le previsioni davano tempo stupendo. La montagna era lì, bella, invitante, dorata contro il cielo di cobalto. Partimmo alle quattro del mattino.   Il primo gruppo si fermò poche ore dopo. Qualcuno non si sentiva d’affrontare le rocce. Qualcun altro si trovò senza più forze quando ci voleva ormai poco alla fine dell’arrampicata.   A me mancava l’aria; lo zaino mi pesava non sulle spalle, ma sui polmoni.   In un attimo capii che l’alpinismo non faceva per me. Gli ultimi desistettero per benevolenza nei confronti dei primi e dei secondi. Ma sembravano felici: non sapremo mai se per il loro gesto di bontà o perché si tornava anzitempo alla base. Osteria; salame e formaggio, polenta abbrustolita e buon vino. Concordammo che quella era la parte migliore della montagna.   E anche del corso.   Franco
Immagine
  R io Me l’ha ricordato una recente pubblicità in televisione: una enorme impronta di piede impressa nella sabbia. Nemmeno Polifemo l’avrebbe lasciata così grande e profonda. L’idea dell’impronta l’aveva avuta Mathis Wackernagel già nei primi anni ’90. La sua Impronta Ecologica fu poi discussa, e subito abbandonata, a Rio de Janeiro, sede dell’incontro tra i grandi della terra in cui venne stabilita una scaletta di interventi per arrestare il degrado ambientale e il consumo del pianeta. Era il 1992. Sono passati trent’anni. L’ Agenda 2000 , il salvifico programma siglato a Rio, ha dato però pochissimi frutti, e il degrado ha continuato a mangiarsi il pianeta.  In barba all’ Impronta Ecologica e alle indicazioni scientifiche e tecniche proposte, nero su bianco, da decine e decine di importanti scienziati, tra cui molti premi Nobel. Andiamo tutti a Rio! Scrisse un giornalista a tantissimi studiosi italiani e ad altrettanti suoi colleghi che non erano stati accreditati alla co
Immagine
  Pedalare La prima me la regalò il papà, alle elementari! Fu una gioia immensa, che durò poco, fino a quando il sellino non poté più essere alzato. Continuai con quelle delle mie sorelle, e un po’ mi vergognavo d’andare con una bici da donna. Usavo anche quella di mio fratello; ma di nascosto, perché lui non voleva che gliela sciupassi. Dovetti attendere la seconda media per avere la mia bici definitiva. Era una Legnano verde acido, con quattro rapporti. Uno spettacolo, con cui feci gite bellissime e tante gare coi compagni di scuola. Andai anche più volte a Trento, per poi tornare a Vicenza: tantissimi chilometri, a quindici anni, e sotto il sole d’estate, con la mamma e la Gemma che inanellavano rosari per combattere la paura. Tenni quella bici con cura anche quando iniziai a lavorare in Università, col professor S. Andava benissimo per limitare gli inconvenienti del traffico tra casa e lavoro. Quella volta pensai ad una battuta. Il professore, comunicandomi che ero diventato il suo
Immagine
  L’assurdo   Ho ricordi bellissimi della ricerca compiuta tra i boschi del Comelico. Faticosa. Un’estate calda ed estremamente umida. Un giorno pioveva ed il giorno dopo, col sole radioso nel cielo di cobalto, ci si bagnava camminando sotto gli alberi che ancora grondavano l’acqua del giorno prima.   Una festa per le zanzare! Caldo, umido e il nostro sangue, dolce e in abbondanza. Repellenti? Cosa sono? Se ne trovavano a frotte, a stormi, a sciami … insomma, scegliete voi; noi ci si muoveva in mezzo a nuvole di zanzare fameliche.   Soprattutto intorno al laghetto di Ceschella, che doveva essere il loro paradiso, un resort a sei stelle! Un giorno il laghetto deve aver perduto il tappo sul fondo. In un attimo si vuotò. La sera era pieno d’acqua e il mattino successivo era un catino di fango che cominciava a seccare. Le zanzare ci sono state malissimo. Io e i miei compagni abbiamo finto un profondo e convinto rammarico per il danno paesaggistico! Ma Ceschella lo ricordo anche per un al
Immagine
  Amazzonia   Il mio compagno nella ricerca che stavo affrontando in Comelico si era da poco laureato col Professore.   Era appena tornato da un viaggio premio che i suoi gli avevano regalato per la laurea.   Amazzonia, nel cuore del Mato Grosso, che vuol dire la Grande Foresta.   Foresta vergine, sottolineava sempre, non proprio come quella intorno al laghetto di Ceschella dove stavamo lavorando assieme ad una laureanda. Ci raccontò che là, in Amazzonia, le zanzare erano ben più grosse di quelle nostrane. Intendeva dire che lui sì che sapeva cosa volesse dire combattere con le zanzare! Ce lo spiegava mentre indossava guanti di gomma, quelli per lavare i piatti.   Di fronte al nostro sguardo interrogativo si mise a ridere: così non mi pungono le mani! Non poteva essere punto da nessuna altra parte: portava anche la kway col cappuccio stretto intorno alla testa: solo gli occhi restavano scoperti.   No, nemmeno quelli: riuscì a mettersi anche gli occhiali da sole! Si tornava in labora
Immagine
  Chiodo Ero magro come un chiodo. Le ossa si vedevano bene, quasi tutte, e con le dita se ne poteva percepire ogni particolare. Senza alcuna fatica si vedevano anche i muscoli, col loro decorso. Insomma, ero ben seguito da tutti i futuri medici alloggiati nello Studentato in cui mi ero trasferito l’ultimo mio anno d’Università.   Alza la maglia …   Stenditi un momento … Piega il ginocchio, fletti il piede, il gomito, … Dio che scoliosi ! Ma come tieni la schiena … questa si che è lordosi ! … Ecco, tra la sesta e la settima toracica, interessante …   Una sofferenza! Speravo anche in qualche suggerimento clinico, ma mai nessuno mi ha indicato una terapia per le magagne che mi venivano riscontrate. Mi prestai anche al primo intervento chirurgico di Carlo, e non era ancora laureato. Si, apri ancora un poco, mi disse dopo che gli avevo detto di un possibile ascesso in bocca, forse un molare.   Mah, si vede quasi niente … ripeté guardandomi la gengiva con una certa difficoltà … passami un
Immagine
  Pecore   Non mi è mai piaciuto che il cappellano ci chiamasse le sue pecorelle ! D’accordo, è un modo di dire che si usa da un paio di millenni, ed è riportato anche nel Vangelo. I tempi sono però cambiati, da allora. E di sicuro il nostro prete, quello che si occupava dei lupetti, nemmeno per un attimo aveva seguito un gregge camminando in mezzo agli escrementi di decine e decine di pecore e di agnelli. Sono carine da vedere, da lontano, e gli agnelli fanno tenerezza.   Ma davvero, puzzano da fare schifo ! Franco