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Visualizzazione dei post da ottobre, 2022
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  Zucche Bisogna prepararsi!   Ancora poche ore e poi i bambini di mezzo mondo busseranno alle porte dei vicini di casa per chiedere dolcetti . Altrimenti saranno guai, cioè, dispettosi scherzetti . Quando ero bambino si andava, nella notte di Natale, a cantare la Chiara Stella .   Ci si sentiva bravi e buoni, un po’ santi. Spesso si pativa del freddo birbone di dicembre e pochi davano dolcetti, o qualche soldino.   Il mondo è cambiato, avrebbe sentenziato la mia mamma, con piena ragione. Non è stato un   cambiamento graduale e lento; Halloween si è imposto nel giro di pochi anni.   Potere della TV, e del mercato: ci guadagnano in molti, a partire dai pasticceri, per finire ai produttori di maschere e travestimenti, e un po’ anche i contadini che coltivano le zucche gialle e grosse, varietà Aspen, che vanno a ruba. Vuol dire che Halloween è stato subito accettato dalla gente, anche se non faceva parte in nessun modo della nostra cultura, o delle nostre tradizioni. Il giorno dei Mort
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Chiampo Il trenino per Chiampo sembrava fatto di legno.   Solo le ruote erano di ferro: lo si vedeva, e se ne sentiva il rumore sui binari. Ma tutto il resto era di legno, di perline perfettamente incastrate l’una nell’altra.   Di porte per salire in carrozza ce n’era una infinità: una per ogni coppia di sedili, che per altro erano anch’essi di legno, durissimi. Gli schienali si potevano spostare da una parte all’altra della seduta in modo che il passeggero fosse sempre rivolto in avanti, nel senso di marcia.   Stare seduti su quei sedili era una sofferenza, tanto erano duri. Ma stare in piedi era ancora peggio, con gli scossoni continui che tormentavano i viaggiatori ad ogni giunzione dei binari.   Lì ho imparato a contare in fretta: dum … dum …dum … uno … due …tre… Arrivato a cento dovevo ricominciare daccapo. Ma avrei potuto continuare all’infinito … Facevo spesso il viaggio da Vicenza a Chiampo, con cambio ad Arzignano.   La Gemma mi portava a casa sua, la domenica, quando aveva il
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Cicchiolino Era caduto lungo il camino, ed era finito nella canna fumaria della stufa. Poteva essere un merlo, o un corvo, tanto era nero di fuliggine!   Era, invece, un piccolo di passero, senza nemmeno una piuma.   Ho lavorato a lungo per liberarlo dal buio inferno polveroso in cui era piombato. Fu fortunato. Da noi trovò una famiglia. Non so come ci siamo riusciti, ma con gli stuzzicadenti, il pane bagnato nel latte e con cento mosche che i ragazzi catturavano per lui, Cicchiolino s’è salvato. Strano nome per un passero, ma gli è stato affibbiato con un referendum di famiglia, e così se l’è tenuto fin che è stato con noi. Mi faceva compagnia quando lavoravo: io al computer, lui su di un trespolo di fortuna costruito a sua misura e appoggiato alla scrivania. Dormiva in una cestina foderata di bambagia, sistemata accanto al mio letto. Ma era di costumi spartani: ben presto alla bambagia preferì il bordo di vimini del cestino. S’involò dal davanzale della finestra, e finì tra le rose:
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Brenta Tutti ne parlano come se fosse una esperienza da provare almeno una volta nella vita.   Serve a tornare indietro nella storia, a capire la nostra terra e come la si vive e la si viveva un tempo. E poi, vista dall’acqua, la campagna e il suo paesaggio, con le ville che la ornano, assumono un altro colore, un’altra dimensione. A guardare la barca, che si ostinano a chiamare Burchiello come quello di una volta, in un attimo mi passa la voglia di salirci. Immagino il rumore del diesel , l’odore del gasolio, il vociare nella cabina, lo sciabordio delle onde mosse dall’elica contro le rive, che a mano a mano cedono e vengono rinforzate col cemento.   È come l’andare di fretta in città, tra le case e la gente. Un tempo si andava da Padova a Venezia quasi solo a forza di remi, di palo e di cavallo che, al ritorno, tirava la barca dall’ alzaia .   Il Burchiello era elegante, comodo, silenzioso; era destinato soprattutto ai signori . Per gli altri c’era quella che oggi si direbbe la corr
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Pomagagnon Ho trovato per caso questa foto. Non so come sia finita nel mio computer. Però mi ha ricordato una avventura di tanti anni fa, forse sessanta. Non posso verificare. Dario, il mio compagno di quell’avventura e di cento altre pazze camminate in montagna, non c’è più. Con lui ho passato due splendide estati, a Cortina.   Per dormire c’era una stanza nella casa di conoscenti degli zii. Per mangiare ci si arrangiava; non era un problema, se non quello legato a quanto ci restava dei quattrini che avevamo a disposizione. Per ogni altra cosa non ci mancava la fantasia, e nemmeno l’iniziativa.   In quanto alle passeggiate e alle esplorazioni, bastavano gli stimoli che ci davano sia Silvio, il nostro coetaneo, figlio di chi ci ospitava, sia da sua mamma, che desiderava farci capire la differenza che c’è tra un montanaro e un “cittadino”.   Quella volta ci trovammo alle prese col Pomagagnon, e con la sua Terza cengia . Uno scherzo, se non fosse che per risparmiare sui quattrini si arri
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Cornus Era tra i primi a fiorire. Una gioia per quell’angolo del giardino, un po’ scuro, triste per gli alberi da frutta spogli e rinsecchiti, che all’inizio della primavera restano ancora immagine dell’inverno. Fiori gialli, minuscoli, alberello stentato, ma perché insisti a volerlo? Mi si obiettava.  Perché mi ricorda quand’ero bambino, era sempre la mia risposta.  Più dei fiori mi interessavano i frutti, le cornole , rossi come il sangue, dolci ed acidi insieme, odorosi come il vino quando li si lasciava a maturare troppo sui rami prima di portarseli alla bocca.  Che scorpacciate! E tornavo a casa con la bocca rossa, e la lingua violacea.  Lungo la strada che corre accanto al Piave per salire a Feltre, il corniolo si ammira in primavera, quando colora con l’oro i gradini di roccia  del monte . Uno spettacolo, che racconta quanto quel cespuglio sopporti l’aridità, e resista al cocente riverbero del calcare.  Eppure questa terribile estate se l’è portato via, come tante altre
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  Sicurezza     La TV è piena di pubblicità sulla sicurezza domestica.  Hanno provato ad entrarmi in casa e non mi sento più sicuro , dice uno col viso contrariato e preoccupato. Vedo che stai montando un impianto Vattelapesca , risponde quell’altro, con l’aria di chi dirà, dopo un attimo, si, lo farò anch’io . I giornali scrivono quotidianamente del calare della sicurezza , nelle case e nelle strade. Bande di giovanissimi, o di malandrini di mestiere, di disperati … ecco il problema. Qualcuno guarda le statistiche e sostiene che i crimini contro la proprietà sono in calo deciso. Poi si scopre che più nessuno li denuncia. Tanto, a cosa serve? Se ti senti insicuro ti devi affidare al marchio Vattelapesca . Cosa faccia è poco chiaro, ma forse è collegato con un servizio di sorveglianza privata, che prima o poi verrà a controllare.  Oppure ti blindi dietro a centimetri d’acciaio e ad inferriate che nemmeno Alcatraz … Una tristezza sentirsi carcerato. Ma poi, quando esci da casa, c
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  Mantissa   Dello studio del papà, che per me bambino era come un continente da esplorare, grande e misterioso conservo ben poco, se non il ricordo delle tante emozioni che mi aveva donato la sua lenta scoperta.   Per anni ho tenuto sulla mia scrivania, in Istituto, lo stesso regolo di calcolo che il papà teneva sul suo tavolo di lavoro, in studio. Mi sentivo fico quando riuscivo a moltiplicare e a dividere numeri impossibili, con rapidità ed accettabile approssimazione.   Vedi, spiegavo ai curiosi del mio strumento di calcolo, caratteristica e mantissa del logaritmo … e subito mi invitavano a lasciar perdere … Poi sono arrivate le calcolatrici elettroniche.   Hanno rubato la scena a me e al regolo del papà. Un po’ anche all’algebra. Ho cominciato a diventar vecchio nell’attimo in cui ho risistemato il regolo nella sua vecchia custodia di cartone, che imitava la pelle di coccodrillo, e lo ho seppellito nel cassetto dei ricordi. Si, con le calcolatrici è finita un’era: quella dei ma
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  Una volta … Ah, una volta … Mi ricordo il papà che esordiva così quando si lamentava di qualcosa che non andava per il verso giusto; era quel verso che, a suo parere, era il migliore tra le possibili alternative. Le sue alternative, ovviamente. Lo dicevano anche il nonno e la nonna, che di anni ne avevano molti più. Loro non erano proprio sicuri che ai tempi in cui, per il mio papà, tutto funzionava al meglio, fosse davvero così. Ero un bambino, ma questo lamento ripetuto mi ha convinto che i vecchi hanno sempre da recriminare su qualcosa. Brontolando la loro litania sui bei tempi andati scaricano la responsabilità dei guai sui giovani e sui tempi moderni.   Ho provato a discuterne col mio papà quando, ormai stanco, con la vista malandata, carico di tanti problemi, desiderava far ordine tra le sue carte, controllare le bollette, regolare le uscite sulla base delle entrate e degli avanzi d’economia … insomma, quando cercava di affrontare le incombenze di casa che, senza fatica, una v
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  Tascapane Il Professore lo chiamava tascapane .   Anche il mio papà, qualche volta, dava questo nome allo zaino. Oppure sacco , altre volte prosacco. Forse era ricordo di tempi in cui si marciava portando il cibo a spalla.   Anch’io anch’io avevo sistemato in un sacco a spalla quanto serviva a sfamarmi quando cominciai a far ricerca in mezzo al nulla: intorno a me solo alberi immensi, e pietre, nel cuore del Supramonte di Orgosolo, in Sardegna. Ma non ero davvero solo. Stavo montando gli strumenti. Un grugnito mi fece voltare, giusto in tempo per vedere due grossi maiali scuri e pelosi accanirsi contro il mio tascapane . Mi misi a gridare agitando le braccia. I due mi guardarono, e corsero via tenendo il tascapane in bocca, non sulle spalle.   Quel giorno saltai colazione, pranzo e merenda. Il giorno dopo appesi la borsa con le vivande in alto, sul ramo di un leccio. Quando tornai per il pranzo, la borsa era stata lacerata, e delle vivande non c’era più traccia.   Restavano solo le
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  Tempo Lo confesso. Mi innamoro facilmente, e mi piace collezionare gli oggetti delle mie passioni. Così ho accumulato, in bella vista e raccolte in vassoi, centinaia di uova di pietra, ed ho pareti tappezzate da mappe storiche del Veneto. In garage tengo, in gran confusione, attrezzi che farebbero gola ad un meccanico, mentre in studio ho il tavolo occupato da strumenti da topografo di due o tre secoli fa e da dozzine di penne, matite e asticciole.   Se non bastasse, anche dal Canada mio figlio mi canzona ricordandomi che in casa ho più computer che mani … Ha ragione, ma quelli proprio non riesco a buttarli, a fine carriera. Ci ho passato troppo tempo insieme per gettarli solo perché sono vecchietti.   Il meglio della mia mania sono però gli orologi.   Che meraviglia gli orologi! Sono costruiti per misurare qualcosa che fisicamente non ha una definizione precisa: il tempo . Tranquilli: non posso, e non voglio, scivolare nella filosofia. Sarebbe da pazzi cimentarsi intorno alle archi
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  Campane   Qualche volta Lucio sostituiva anche il campanaro. Lo faceva dopo che aveva servito la messa delle nove; lo scampanio era il segnale che di lì a poco ne sarebbe cominciata un’altra. Il richiamo sonoro ai fedeli spettava al nostro cappellano, che però cedeva volentieri ad altri quel compito, che non presentava nessuna difficoltà se non quando dovevano rintoccare insieme tutte e tre le campane di San Pietro, cosa che accadeva piuttosto di rado. Sono andato anch’io a giocare con Lucio nello stanzino a pianterreno del campanile. Era un locale piuttosto angusto, tetro per la poca luce che filtrava da un paio di feritoie.   Su di un lato, una scala di legno a pioli si inerpicava ripida e stretta fino ad una botola.   Sono dieci le scale per arrivare fino alla cella campanaria, mi disse Lucio.   Il papà calcolò che le campane si trovavano a circa trenta metri di altezza. Erano dunque trenta anche i metri di corda che pendevano dalle campane fino alle mani di Lucio. Erano funi mol
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Ombre Seduto in poltrona, osservo e studio le ombre proiettate sul pavimento dal pallido sole di mezzo ottobre.   Pensieri torpidi del pomeriggio.   Compare Platone. Si, ecco, è il liceo … Sento il professore che parla del mito della caverna e delle ombre, che sono il vago, immateriale, ideale simulacro che la mente costruisce ad immagine della realtà, quella presunta, che sta fuori, nella luce del sole.   Quel ricordo mi scuote, almeno per un attimo. Sul pavimento distinguo le forme delle foglie della vite che fa pergola davanti alle finestre. Forse non distinguo le foglie, ma so che son lì, e che si muovono nella brezza del mio pigro, tiepido, dopopranzo. S’accende un altro ricordo. Basta, Franco, fila in camera tua ! Grida la mamma indispettita per una sciocchezza che devo aver combinato.   Mi vedo steso sul letto; guardo la parete davanti a me, e le righe di luce e d’ombra disegnate dal sole e dalle tende alla finestra. In strada passa un’automobile, e un’ombra si muove da un margi
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  Accademia   Forse non dovrei parlarne, e tenere simili pensieri dentro di me. Eppure … se non lo faccio ora, quando mai lo farò? Ieri ho presentato una memoria in Accademia, qua a Padova. Ho chiacchierato su di un argomento curioso, e quasi certamente sconosciuto alla maggior parte di chi ascoltava: una insolita raccolta di libri che l’Università conserva presso la sua sede di San Vito di Cadore.   Sono libri molto particolari: sono fatti di legno! Non hanno pagine; sono teche, scatole quasi perfette, tenendo conto delle deformazioni che il legno ha subito negli anni, che sono tanti, circa duecento, forse anche cinquanta di più.   Sono dei vecchietti, un po’ delicati, ma stupefacenti per la loro capacità di raccontare … Ogni libro è costruito col legno di una specie arborea diversa, cresciuta tra le Alpi e il Mediterraneo, alcune venute anche da terre lontane, dalle Americhe o dall’Estremo oriente. La copertina mostra le caratteristiche del legno, cioè le sezioni del fusto: trasversa