Monte Nero Il Corriere di oggi dedica una bellissima pagina a Lucia degli Alpini , una signora che, per pietà e per passione, è divenuta Cacciatrice di anime . Con pazienza certosina, Lucia restituisce memoria ai mille e mille giovani caduti combattendo, o per ferite, o per malattia durante la Grande Guerra. Quella lettura mi ha commosso. Ho pensato che ora c’è qualcuno, magari un familiare, che ha potuto recuperare memoria di un parente che più di un secolo fa ha conosciuto l’orrore del fronte, in trincea, o all’attacco di altre trincee, finendo poi sepolto in un ossario di guerra, spesso senza nome, o col nome storpiato e irriconoscibile. Spesso neanche figli e nipoti di chi è riuscito a tornare sono stati in grado di conservare, o recuperare, memoria dei propri cari. Costoro, infatti, magari straziati nell’anima dalle battaglie combattute, carichi di terribili esperienze, forse anche per pudore, o per la voglia di dimenticare, il più delle volte hanno preferito tenere i ricordi
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Visualizzazione dei post da agosto, 2022
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Vongole Abbiamo salutato con simpatia l’addetto alla sicurezza all’ingresso del villaggio. Lo abbiamo visto sorridere e rinfrancarsi un poco: evidentemente quasi nessuno s’accorge di lui, che è piuttosto anziano e trascorre tutta la giornata in piedi, spesso sotto il sole. Lui non se ne lamenta. La vita l’ha passata facendo la guardia giurata: un mestiere difficile e rischioso, da quelle parti. Ci ha raccontato che lì, dove vive e lavora, la delinquenza è di casa, in terra come in acqua. Nel seicento, ci diceva, c’era un’intera isola, perduta tra i bracci del Po, in cui venivano deportati i galeotti. Il Papato aveva trovato la soluzione giusta per provvedere alla bonifica: lavori, coltivi e mangi, oppure qualcuno ti seppellirà, morto di fame, qua nel fango. Rideva di gusto, il nostro guardiano. La trovava una buona idea. O quanto meno un’idea spiritosa. Ora è anche peggio, continua: dalle mie parti c’è gente che viene di notte col barchino a rubare le vongole. C’è una pattug
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Lodola Lo confesso, era stata una pazzia. Ne parlavo con un amico, in istituto: mi piacerebbe avere una moto, da usare in montagna … Il giorno dopo mi disse che poteva procurarmi, per una cifre decente, una moto del Corpo Forestale, con in più una cassa di pezzi di ricambio. Un modello fatto apposta per salire in montagna, a prova di tutto, una meraviglia tecnologica. In più era quasi nuova, diceva, recuperata dal magazzino regionale. Non ci pensai un attimo. E accettai. Non fu altrettanto facile fare accettare la mia decisione in famiglia. Ma quando arrivò la moto … anche lei se ne innamorò. Non lo avrei mai immaginato … aveva le due ruote nel sangue. Andammo dappertutto, con quella Lodola della Guzzi, dalle più sperdute malghe del Trentino ai lidi ferraresi, dove i nostri bambini andavano al mare con la loro santa nonna. Un bel coraggio. O eravamo due genitori scapestrati? Affrontammo anche una tempesta di pioggia violentissima mentre tornavamo dai lidi e dovevamo percorrere l
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Foglie Quando il mio amico Nilo si graffiava le gambe, o si pungeva le dita, diceva che la cosa migliore da fare era mettere sulla ferita una foglia di moraro . Non so a che pianta si riferisse, perché ogni volta che si sbucciava da qualche parte, Nilo copriva la ferita sempre con una foglia differente. Mai con quelle del gelso, il vero moraro , anche perché in campagna, lì sul monte, di gelsi non ce n’era più nemmeno uno. Forse voleva dire che per guarire quelle ferite lì non ci voleva poi chissà quale rimedio: bastava la fantasia … Il papà e la mamma impazzivano per le erbe cotte. Le erbe erano quelle selvatiche, che i miei andavano a raccogliere al momento giusto, in primavera. Tra tutte, le più ambite erano le foglie giovani e tenere del tarassaco, il pisacan, che per definizione sono amare come el tosego … da fare schifo. Per me era un tormento vedere i miei genitori impegnati in quella raccolta … che finiva sicuramente, a cena, anche nel mio piatto. Molto più gustosi eran
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Marrakech Mia moglie dice che puzza da cammello, e non vuole che la usi. Eppure è pratica, leggera, robusta, e mi piace. Mostra un che di esotico, e di unico. Tutti la notano. Così mi pare d’avere qualcosa di assolutamente originale che nessuno altro possiede. Qualche volta però mi viene il dubbio: che mi guardino perché sentono odore di pipì di cammello? Dio mio, all’inizio ero d’accordo anch’io: ha un sentore rivoltante, mi avevano detto; … altri, evidentemente esperti della cosa, sentenziavano che la concia di quelle pelli viene fatta con l’orina di cammello, che è un efficace antibiotico naturale. C’ero rimasto malissimo, ma ormai l’avevo comperata. Per non appestare l’aereo, l’avevo chiusa in valigia. Abbiamo così dovuto lavare e rilavare più volte di seguito ogni cosa portata con noi da Marrakech . La mia cartella passò così l’inverno appesa fuori di casa, al riparo dalla pioggia, ma ben esposta al vento e alla nebbia padovana. Poi mi è venuta l’idea! Mi improvvisai piccolo chi
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Tagliatelle Oggi tagliatelle! Adoro le tagliatelle, soprattutto coperte di ragù. Mi piacciono anche con i funghi, quando il vapore che si leva dal piatto sa di bosco, di porcini e di ovuli buoni. Accidenti! Mi faccio prendere ancora una volta dalla nostalgia. Cerco di resistere, di non farmi trascinare nel gorgo dei ricordi. Così, brontolando con me stesso, afferro le forbici e taglio il pacchetto delle tagliatelle comperate al supermercato. Sono chiare … una giusta via di mezzo tra la farina e le uova. L’idea la trasmettono: è pasta all’uovo, di certo non è una bugia. Non serve pesare; tre nidi interi bastano per due persone: sono fatte con macchine perfette … il peso è sempre esatto, un nido di tagliatelle secche è eguale ad ogni altro suo fratello, o cugino. È così da quando ci sono quelle macchine precise, che impastano la farina con l’acqua e le uova liofilizzate, spremono a pressione costante la massa così preparata attraverso la trafila, arricciano e seccano le tagliatelle con
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Caprioli Vent’anni. La cinquecento piena come un uovo. Velocità massima ottanta. Quella reale, in autostrada, arrivava forse a settanta. Davanti a noi l’ottocentocinquanta di Alvise e di Antonia. Immagino che friggano ancora all’idea di un viaggio di quasi mille chilometri fatto a quella velocità. Da Padova a Caprioli, vicino a Capo Palinuro, non è proprio uno scherzo. Ci si deve fermare più volte: il motore scalda, bisogna farlo riposare. Su il cofano, e controllo di ogni cavo, ogni tubicino. Non ci si allontana mai dalla macchina per paura che ci rubino qualcosa. Dobbiamo però farlo all’altezza di Caserta: ormai è notte, e bisogna pur dormire da qualche parte. Troviamo un motel: pare costoso, ma fatti quattro conti, se ci ammassiamo tutti in una stanza, tutto sommato ce lo possiamo permettere. La Gemma, che ci guardava storto all’idea di una vacanza da soli, la metteremo a tacere per qualche giorno. Eccoci arrivati. Finalmente realizziamo il nostro sogno: una vacanza in lib
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Vino La domenica si mangiava spesso all’osteria da Beneto . Tutte le famiglie della corte insieme. I piatti erano sempre quelli: tagliatelle fatte in casa al ragù di cortile , e poi braciole e polenta, col contorno dei pomodori dell’orto. L’oste metteva in tavola il vino spillato dalla botte, lo stesso che offriva alla gente che, dopo messa, si fermava a giocare a carte, nell’altra stanza della taverna. Quando si entrava, la mamma era svelta a superare la stanza lunga e stretta in cui la gente beveva giocando a carte: briscola, scopa o tressette. Di quella stanza ricordo l’odore acre del vino, le grida, a volte il rumore dei pugni calati sul tavolo, scuro, consumato dai gomiti dei giocatori … che poi erano i contadini delle corti vicine a quella del nonno, che la domenica cercavano un po’ di compagnia sperando di scordare la fatica, e i timori per il raccolto, o per la salute delle vacche. Alla mamma non piaceva quel giocare a carte all’osteria, ed ancor meno con tutto quel vino.
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Pressione Ogni tanto la ammiriamo, in montagna. Qualche volta anche la usiamo. È uno spettacolo! Alluminio di gran qualità, che a distanza di settant’anni non mostra ancora segni di usura o di cedimento. Nemmeno la bachelite del manico, che pure ha perduto un po’ del suo colore brillante, mostra una crepa, o una scheggiatura. La guarnizione è stata sostituita molte volte. Anche se il marchio non esiste più, quel tipo di gomma, cilindrico, resistente alle alte temperature, viene ancora venduto a metro. Non c’è problema a cambiarla. La mamma fu felicissima quando il papà le portò a casa la prima pentola a pressione venduta nel negozio di casalinghi vicino a casa. In un attimo lei si sentì all’altezza dei tempi, e trovò il modo per parlarne al telefono con le cugine e con le amiche. Come dire … ebbe il suo momento di gloria! La Gemma, come sempre le succedeva avendo a che fare con le cose moderne , ne fu invece terrorizzata. Il sibilo del vapore che usciva a sbuffi dalla valvol
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Capperi Sono l’esempio della frugalità, della resistenza, della forza. Basta una crepa nella pietra calcarea, anche al sole, dove la pioggia quasi non si sa cosa sia, e l’acqua è solo quella portata dall’umidità della notte. Eppure i semi ci mettono radici, e crescono. Foglie verdissime e fiori candidi, vistosi, vaporosi. Arriva fin quasi a toccare il mare. Una meraviglia! Si, i capperi dovrebbero essere presi ad esempio di come si dovrebbe essere di fronte alla scarsità di risorse: accontentarsi, sembra essere il loro motto. Basta poco, e si vive, si conquista il mondo. Lo coltivano anche a Linosa, che è un vulcano sperduto in mezzo al mare. Niente calcare! Ma resiste anche lì, dove il vento soffia impetuoso, piove quasi nulla e il sole brucia ogni cosa. Un vero inferno per gli uomini, ma non per i fichi d’India, e nemmeno per i capperi. È loro tutto il Mediterraneo e anche una parte del medio oriente. Mi dicono che ce n’è una pianta cresciuta spontaneamente tra i mattoni della t
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Acqua L’acqua è vita, lo sappiamo da sempre. Oggi ancor di più, dopo aver sperimentato la dannazione della siccità. Per questo si dovrebbe sempre guardare all’acqua con rispetto e attenzione, a volte anche con paura, perché si soffre quando ce n’è poca, ma anche quando ce n’è troppa. L’acqua buona è una benedizione, e va conservata con ogni cautela, perché quella inquinata, violata con chissà che cosa, non si può usare, serve a nulla. Forse per tutti questi motivi, nell’antichità l’acqua più pura e più bella era dedicata a qualche divinità. In questo modo veniva tutelata, e restava intatta. Una scelta indovinata, durata per secoli e secoli. Passato il tempo degli dei falsi e bugiardi , ci si è dimenticati delle ninfe naiadi, nereidi e oceanine che abitavano mari, fiumi, laghi e sorgenti e ne tutelavano l’integrità. E da allora è cominciato il degrado! Forse non ovunque. Sto osservando un disegno di Vito Calabrò, un artista bellunese cultore delle tradizioni della montagna.
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Cardo Quando si pranza, qua in montagna, spesso gli occhi mi corrono ad una litografia appesa di fronte al tavolo. Non ricordo come sia arrivata quassù. Anche se l’artista è noto, per me il valore del disegno è connesso solo alla pianta che rappresenta: un cardo, con forme un po’ approssimate che a me rammentano l’ eringio d’ametista , come lo chiamava mia sorella, e accendono ricordi che mi portano indietro nel tempo, sommergendomi di nostalgia. La memoria corre infatti alle mie sorelle, e ad alcuni meriggi d’estate durante i quali, per tenermi lontano da casa dove la mamma e il papà riposavano, mi portavano tra i prati del monte intorno alla casa dei nonni. Loro leggevano, sedute sull’erba, io inventavo i giochi più strani. Inseguivo le decine di piccole farfalle azzurrine che mi volavano intorno, cercavo d’acchiappare le altrettanto numerose cavallette verdi che saltavano di qua e di là ovunque intorno a noi, cercavo di individuare i grossi grilli neri o le cicale che frinivano c
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Fumo Avevamo quattordici anni, mio cugino ed io, quando abbiamo passato gli ultimi giorni insieme, al Lido di Venezia, dove sua mamma aveva la casa di famiglia. Poi non ci siamo più veduti per cinquant’anni. Ci siamo ritrovati quasi per caso: un paio di brevi incontri, qualche mail , lo scambio di ricordi, sempre col senso della vecchiaia che incombe. È salito qua in montagna per godere un po’ di fresco; così si sta spesso insieme. Siamo seduti a tavola e mi indica un disegno sulla parete. È del mio maestro , gli spiego, come gli altri disegni vicini … me ne faceva dono ad ogni Natale. Abbiamo chiacchierato sul disegno, che trasmette suggestioni di autunno in un borgo di campagna, da qualche parte nel Veneto. La litografia è diventata lo spunto per parlare della memoria. È fiorito qualche ricordo di campi, di boschi, di legna buttata sul fuoco. Lui racconta anche del profumo di bollito nella cucina della mia mamma. Anche per me la memoria è spesso associata agli odori. È un seg
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Compagnia Ci sediamo spesso in giardino a leggere. Sul prato. Il ciliegio che ci dona ombra; lo sguardo, sollevato dal libro, può volare lontano, verso le montagne che chiudono la valle. Qualche anno fa c’era la neve, lassù, oltre i tremila. Oggi si vedono pietre, e le pareti verticali delle Dolomiti. Belle, ma tristi. Sono nude. La casa è alta sul paese. Davanti non ci passa nessuno. Qualche volta si sente un’auto, diretta chissà dove. Salendo si va verso altre case, lontane, o verso il bosco; nella direzione opposta si scende in paese. Duecentosessantanove anime, qualche anno fa. Età media settanta. Che pace, ci viene sempre da dire. Passano i giorni e ci si innervosisce. Si capisce perché gli orsi sono orsi, e grugniscono, si innervosiscono ad ogni rumore, od odore. Alla fine anche a noi pesa il silenzio. Ci opprime la solitudine. Abbiamo bisogno di compagnia. Ridotti a scendere in bottega per salutare qualcuno! Buongiorno Anna … ha due segalini? E un filone integrale? Cer
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Ombra La baita e la casera di Lucio si trovano a Largé, sul versante ad occidente della Paganella. Il nome fa pensare al larice; argé era il nome della resina che veniva estratta da quegli alberi. Il timbro climatico temperato caldo del luogo non è ideale per la specie, che è più adatta per salire in alto, fino al limite superiore degli alberi. Arrivare alla baita significa riempirsi gli occhi d’un paesaggio d’altri tempi, fatto di pascoli e di boschi, del silenzio dei luoghi difficili da conquistare, delle creste, ancora erbose, dei primi contrafforti delle Dolomiti di Brenta che si alzano dall’altra parte della valle. Ci si rende conto d’aver fatto un salto indietro nel tempo! Tutto pare immobile, lì, come se i vecchi che hanno lavorato quei pascoli, e nella casera a farci formaggi, se ne siano appena tornati a casa. Quanti secoli fa? Non lo so. Su una parete della baita si legge 1886, ma forse è la data di una sistemazione degli edifici, e non quella di costruzione. E poi